Roma, 19 gennaio 2021 – Nella prima fase della pandemia la sanità penitenziaria ha gestito la difficile situazione di contenimento della trasmissione del Covid-19 con l’unico rimedio possibile: un cordone sanitario che isolasse quanto più possibile l’esposizione al rischio di detenuti e operatori interni agli istituti. Le disposizioni del DAP avevano sospeso i colloqui, la loro conversione in videochiamate con l’ausilio della tecnologia.
L’esperienza della pandemia ha riportato però l’attenzione sulla gestione della sanità nelle carceri nel dibattito pubblico, mostrando sia le necessità di intervento, che in parte è stata implementata, sia la capacità di gestione delle patologie dei detenuti, che negli anni è stata dispiegata per fronteggiare malattie come l’Epatite C e l’HIV.
La SIMSPE, Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria, da anni lavora per affrontare e migliorare le condizioni delle carceri dal punto di vista sanitario. Il suo presidente – e medico – Luciano Lucanìa, ha spiegato alla Dire cosa bisogna ancora fare e cosa si è riusciti a realizzare.
Presidente, qual è la situazione epidemiologica nelle carceri, in questa interminabile seconda ondata del Covid-19?
“Il problema del Covid nelle carceri non proviene dai detenuti in sé, il virus proviene infatti dall’esterno degli Istituti Penitenziari. Sicuramente la situazione epidemiologica è migliorata rispetto alla prima fase dell’emergenza perché si è sviluppato un programma di contenimento e controllo.
C’è, però, in generale anche se non per tutti, una sottovalutazione del rischio: di fronte a qualche linea di febbre ci sono stati operatori che si sono recati al lavoro comunque, quasi un volere scotomizzare dal sintomo la possibilità di essere positivi. Non è giusto, ma è comprensibile, in questo quadro di tragedia collettiva.
I più, fortunatamente, hanno ben compreso la necessità di essere attenti e mettono in atto atteggiamenti di prevenzione dal contagio ma manca ancora una forma, direi, di maggiore attenzione, e non è una questione che riguarda solo il mondo del carcere, ma è piuttosto un problema culturale che ha riguardato tutto il nostro Paese, con forme di sottovalutazione dei comportamenti, che hanno acuito il rischio sanitario. È chiaro che in una condizione come quella degli istituti penitenziari, il rischio è più alto”.
Come si è affrontato il problema e quali interventi avete suggerito come SIMSPE?
“La salute in carcere è gestita a livello regionale e il livello di condivisione con lo Stato è in Conferenza Unificata. Recentemente il Gruppo Interregionale Sanità Penitenziaria ha definito per la Conferenza due documenti obiettivamente importanti: il primo sull’assistenza sanitaria e il secondo sulle articolazioni della salute mentale negli istituti.
L’emergenza Covid ha permesso di riaccendere i fari sulla sanità penitenziaria e anche di affrontare le conseguenze della chiusura degli OPG, che ha dimostrato i limiti del nuovo percorso attraverso le REMS, la cui capienza è notevolmente inferiore alle attuali esigenze.
Le REMS, ovvero le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza non riescono ad ospitare tutti gli internati, in particolare quelli ‘provvisori’. Molti di questi rimangono in carcere ponendoci di fronte ad uno sforzo di gestione e miglioramento delle misure per la salute mentale che si è tradotto anche in un confronto che continua a livello centrale negli organismi deputati”.
Cosa è stato fatto per il contenimento e controllo del virus nelle carceri, quali screening sono in atto?
“La prima novità a cui SIMSPE ha contribuito, anche oltre all’attenzione sul Covid, è lo screening sull’epatite C. Per la prima volta un recente Decreto Ministeriale ha inserito tutti I detenuti nello screening, oltre ad altre patologie e fasce di età: sono stanziati oltre 70 milioni di euro fra le regioni nel biennio 2020-2021. Lo scopo del test, è di prevenire la cirrosi epatica, la conseguenza di un’epatite C non curata.
La cirrosi è una malattia devastante, che spesso evolve in cancro-cirrosi. Il test consente di portare in superficie il sommerso e trattare I casi, oltre che contenere questa epidemia sommersa. Gli screening sono ovviamente soggetti al consenso da parte dei detenuti ma c’è una sensibilità maggiore e quindi se ne faranno in buon numero. Vi sono anche altri studi e ricerche, in particolare su HIV e Covid.
Per quanto riguarda il nuovo Coronavirus, il cordone sanitario istituito all’inizio, per isolare le carceri dal contagio, ha funzionato, anche se, certamente, dei casi ci sono stati, in particolare nelle aree della nazione dove sul territorio la diffusione del virus è stata maggiore. Nella seconda fase si è deciso per un tracciamento diffuso su tutti I nuovi giunti e i detenuti che avevano avuto un permesso di uscita temporanea. Oltre al tracciamento sono stati adibiti spazi per una quarantena preventiva. Questa seconda ondata, possiamo dire, sembrerebbe più gestibile dal punto di vista delle interazioni con l’esterno perché si riescono a fare tracciamenti e contenimenti mirati”.
Qual è la situazione delle vaccinazioni anti-Covid negli istituti?
“La circolare del ministero della Salute prevede di vaccinare gli agenti e tutti gli operatori penitenziari, è in atto dal 14 al 28 gennaio la raccolta delle adesioni al vaccino da parte degli agenti di polizia penitenziaria. Esiste anche un dibattito pubblico sull’opportunità o meno di vaccinare i detenuti.
È oggettivo che molti ristretti nelle carceri hanno patologie e comorbilità. Inoltre anche per chi ha ricevuto una pena definitiva dovrebbe essere considerate l’opportunità della vaccinazione. In molti casi si tratta di persone da considerarsi fragili sotto il profilo sanitario, anche perché chi entra in carcere spesso problematiche di patologia, che spesso si sommano ad altre che si possono svilupparsi nelle carceri. Abbiamo sempre sostenuto che il carcere è un concentratore di patologia.
Riteniamo che un’alta percentuale della popolazione carceraria è soggetta ad un’attenzione sanitaria specifica, oltre le usuali visite mediche d’ingresso e periodiche, con presa in carico specialistica ed esami anche di 2° livello. Perché questi non potrebbero a pieno diritto rientrare nell’ambito delle fragilità sanitarie, indipendentemente dall’età anagrafica ma in ragione del contesto, a cui potrebbe essere somministrato il vaccino nella fase 2 del piano elaborato dal Commissario straordinario Arcuri per il governo.
Non si tratta di considerare con un occhio di riguardo i detenuti, ma anzi di valutarne attentamente la situazione sanitaria in un dibattito equo, esente da ideologie e preconcetti, dove tener conto dell’individuo e del rischio sanitario, oltre che del diritto”.
(fonte: Agenzia Dire)