Roma, 19 aprile 2024 – Undici nuovi modelli per comprendere il nostro universo sono stati messi sotto esame in una nuova ricerca di Ali Rida Khalife, fisico dell’Università della Sorbona e del CNRS, insieme a colleghi della Sorbona e dell’Università di Aachen, appena pubblicato sul Journal of Cosmology and Astroparticle Physics JCAP. Tutti questi modelli sono stati creati per risolvere la cosiddetta Tensione di Hubble, “uno dei maggiori problemi della cosmologia moderna”, come la descrive lo stesso Khalife.
Il problema è la differenza che emerge quando il “Parametro di Hubble”, che descrive l’espansione dell’universo oggi, viene calcolato con metodi e dati differenti. Questa differenza ha messo in crisi il modo in cui la fisica moderna comprende e descrive l’universo (gettando dubbi persino sulla Relatività generale di Einstein), rendendo cruciale una soluzione. Il nuovo lavoro esclude tre dei modelli analizzati, che danno risultati troppo incerti, e mostra che tra quelli rimanenti, nessuno è migliore degli altri. Per questo motivo, secondo gli autori potrebbe essere necessario un cambiamento radicale nel modo in cui stiamo affrontando il problema.
Grazie all’ampliamento vertiginoso delle osservazioni cosmiche e degli strumenti di misurazione, insieme ad alcuni nuovi avanzamenti nella conoscenza – principalmente la “scoperta” di quello che chiamiamo materia oscura ed energia oscura – il tutto alla luce della Relatività Generale, teoria ancora imbattibile per solidità, coerenza e numero di verifiche sperimentali, l’inizio del nuovo millennio è stato un periodo in cui nulla sembrava in grado di fermare l’avanzamento della nostra conoscenza sul cosmo, le sue origini e la sua futura evoluzione.
C’era ancora molto da scoprire ovviamente, ma l’apparente armonia tra osservazioni, calcoli e quadro teorico prometteva bene. Tuttavia, proprio grazie a osservazioni e calcoli sempre più sofisticati, l’emergere di quello che all’inizio sembrava solo una piccola incongruenza si è rivelato un bel guaio. Inizialmente, gli scienziati erano quasi certi di poterla eliminare con calcoli e misurazioni ancora più precisi, ma non è andata così.
Questo grattacapo, chiamato “tensione cosmologica”, ha origine nei due modi in cui calcoliamo il cosiddetto parametro di Hubble, H0, che descrive l’espansione dell’universo, e può essere calcolato seguendo due percorsi:
- Le osservazioni astrofisiche su corpi celesti definiti locali, cioè non molto lontani da noi. È possibile misurare la velocità con cui i corpi a diverse distanze si stanno allontanando, l’espansione e H0 in questo caso vengono calcolati confrontando velocità e distanze.
- I calcoli basati sui dati del fondo cosmico di microonde, la CMB, una radiazione debole ed estremamente lontana risalente ai primordi dell’universo. Le informazioni che raccogliamo a quella distanza ci permettono di calcolare il tasso di espansione dell’universo e il parametro di Hubble.
Queste due fonti hanno fornito valori di H0 non esattamente uguali, ma molto vicini e coerenti, e inizialmente si è pensato che fosse una cosa positiva, quasi una conferma delle nostre ipotesi teoriche. Bingo.
Intorno al 2013 però ci si è resi conto che “i numeri non tornavano”. “La discrepanza che è emersa potrebbe sembrare minima, ma dato che le barre di errore da entrambe le parti stanno diventando molto più piccole – perché le misurazioni sono sempre più precise -, questa separazione sta in realtà diventando grande”, spiega Khalife.
Una misura può essere imprecisa, cioè avere una possibilità di errore rappresentata con una “barra”. Se le barre di errore sono ampie possono sovrapporsi anche per risultati diversi, quindi c’è una possibilità che in realtà i valori reali coincidano, e si sperava che questo fosse il caso. “Poi però è arrivato l’esperimento Planck, dando barre di errore molto piccole rispetto agli esperimenti precedenti” ma mantenendo comunque la discrepanza, e infrangendo di fatto le speranze per una facile risoluzione.
Planck è un satellite lanciato nello spazio nel 2007 per raccogliere un’immagine della CMB dettagliata come mai prima di allora. I suoi risultati rilasciati alcuni anni dopo, con la conferma della tensione, hanno dunque trasformato una moderata preoccupazione in una crisi vera e propria. In pratica quello che sembrava emergere è che le zone dell’universo vicine a noi nello spazio e nel tempo raccontano una storia diversa, anzi sembrano obbedire a una fisica diversa, rispetto a quelle più antiche e più lontane. Una cosa davvero molto improbabile.
Se non è un problema di misurazioni allora potrebbe essere un difetto nella teoria, hanno pensato in molti. Il modello teorico attualmente accettato si chiama ΛCDM. Si basa sulla Relatività Generale – la teoria sull’universo più straordinaria, elegante e ripetutamente confermata dalle osservazioni formulata da Albert Einstein più di un secolo fa – e tiene conto della materia oscura, interpretata come fredda e lenta, e dell’energia oscura trattata come una costante.
Negli ultimi anni, sono stati proposti vari modelli alternativi o estensioni al modello ΛCDM, ma finora nessuno si è dimostrato convincente (o talvolta nemmeno testabile). “È importante testare questi vari modelli, vedere cosa funziona e cosa può essere escluso, in modo da poter restringere il percorso o trovare nuove direzioni verso cui dirigersi”, spiega Khalife.
Nel loro nuovo articolo, lui e i suoi colleghi sulla base di ricerche precedenti hanno messo in fila 11 di questi modelli, mettendo un po’ in ordine la giungla teorica che si è creata. I modelli sono stati testati con metodi analitici e statistici su diversi insiemi di dati, sia dell’universo vicino che lontano, inclusi i risultati più recenti dalla collaborazione SH0ES (Supernova H0 for the Equation of State) e SPT-3G (la nuova telecamera del del South Pole Telescope, che raccoglie la CMB).
Con i nuovi dati utilizzati tre dei modelli selezionati sono stati esclusi. Altri tre modelli sono invece apparsi come possibili riduttori della tensione, ma solo da un punto di vista statistico. “Abbiamo scoperto che questi sembrano funzionare, ma solo perché hanno barre di errore molto grandi e le previsioni che fanno sono troppo incerte per gli standard della ricerca cosmologica – dice Khalife – C’è una differenza tra risolvere e ridurre: questi modelli riducono la tensione da un punto di vista statistico ma non la stanno risolvendo”. Più in generale, nella nuova analisi nessuno dei modelli testati si è dimostrato superiore agli altri nel ridurre la tensione.
“Dal nostro test sappiamo ora quali sono i modelli che non dovremmo guardare – conclude Khalife – e abbiamo anche un’idea più chiara su come andare avanti”. Questo lavoro potrebbe fornire un punto di partenza per i modelli che saranno sviluppati in futuro: vincolandoli con dati sempre più precisi potrebbe essere possibile quindi avvicinarsi allo sviluppo di un nuovo quadro teorico per comprendere il nostro universo.