Dott. Pierangelo Clerici, Presidente dell’Associazione Microbiologi Italiani: “È evidente, anche per i non esperti, che se non è ancora nota la dinamica anticorpale di questo virus, il significato e l’affidabilità dei test sierologici vengono meno, ridimensionando gli annunci trionfalistici che rischiano di dare false speranze”
Udine, 3 aprile 2020 – Non si devono alimentare false speranze sui test sierologici. Le Regioni devono tenerne conto. Il ragionamento è semplice: i test sierologici vengono impiegati per cercare gli anticorpi generati in risposta ad un’infezione. Il riscontro di anticorpi delle diverse classi di immunoglobuline (M, G, A) dipende dalla cosiddetta cinetica anticorpale, dalla durata nel tempo degli anticorpi e dalla loro immunogenicità.
Ora, il problema è che proprio la “cinetica anticorpale del virus SARS CoV-2 è sconosciuta, sia in fase iniziale di Covid-19, sia in fase conclamata sia, da ultimo, dopo la risoluzione clinica della malattia”, scrive l’esperto Pierangelo Clerici, Presidente dell’Associazione Microbiologi Italiani (AMCLI).
La risposta sierologica (umorale) è caratterizzata da una fase precoce e solitamente limitata nel tempo (IgM) e da una fase più tardiva e solitamente stabile nel tempo (IgG). Ancora più incerto è il ruolo di anticorpi di classe IgA. È evidente, anche per i non esperti, che se non è ancora nota la dinamica anticorpale di questo virus, il significato e l’affidabilità dei test sierologici vengono meno, ridimensionando gli annunci trionfalistici che rischiano di dare false speranze. Intanto, da fonti sanitarie, si apprende che il numero odierno degli operatori sanitari contagiati in Friuli Venezia Giulia è salito a 299. L’età mediana dei contagi è di 58 anni.
Non si riescono ad interpretare i dati anticorpali neppure nei (presunti) guariti. “Alcuni dati preliminari indicano che la comparsa degli anticorpi si sviluppa dopo diversi giorni dall’infezione (7-14, mediamente 10, tanto che sembrerebbe che solo il 20% dei soggetti malati presenti anticorpi dopo 4 giorni), che la positività non è rilevabile in tutti i pazienti ricoverati e che i dati – ancora pochi – nei pazienti clinicamente guariti non sono interpretabili”, spiega Clerici nel documento ufficiale.
I test di laboratorio per la diagnosi di tutte le malattie infettive devono saper rispondere a interrogativi a cui, però, parlando di Coronavirus, non ci sono le risposte. Ecco le domande: “La persona che ho davanti ha o non ha il virus SARS CoV-2? Oppure ha un altro Coronavirus diverso da SARS CoV-2? È o non è guarita? È o non è in grado di infettare ancora i suoi contatti?”.
Com’è pensabile eseguire test di laboratorio quando non abbiamo le risposte a questi interrogativi? Ci potrebbero essere reinfezioni dopo un certo periodo, come si è visto nel caso del virus SARS? Come se non bastasse, spiega Clerici, “non sono neppure note le performance analitiche dei singoli kit diagnostici disponibili in commercio” su cui pensa una variabilità da valutare.
L’Associazione Microbiologi ribadisce che “le conoscenze attuali sono modeste e i dati sono non conclusivi su: tecnica di rilevazione, cinetica anticorpale, predittività diagnostica e prognostica”, che “i dati di sensibilità analitica sono modesti (60% in soggetti certamente affetti da Covid-19 perché sintomatici e positivi al test biomolecolare), che “i risultati sono per lo più difficilmente valutabili per la mancanza, spesso dichiarata, dei test di neutralizzazione” e che “l’impatto diagnostico è modestissimo se non fuorviante se è vero che i falsi negativi – con taluni kit – raggiunge la quota dell’80%”.
“Fino alla disponibilità di dati di letteratura certi – concludono i Microbiologi – o di risultati consolidati di valutazioni policentriche non si ritiene opportuno procedere con l’introduzione, in algoritmi operativi, dei test sierologici né per la definizione eziologica di infezione né per valutazioni epidemiologiche di sieroprevalenza”.