Roma, 19 febbraio 2020 – “Noi abbiamo un allenamento costante a fronteggiare l’emergenza. Siamo come una molla che si carica e lavora per essere carica, per poi essere rilasciata quando serve. Questo vuol dire che facciamo un continuo monitoraggio di quello che accade nel mondo e quando ci sono avvisaglie di qualcosa che sta venendo fuori, mettiamo in campo le nostre conoscenze, competenze e la nostra esperienza in ambito nazionale e internazionale”. Così la direttrice del laboratorio di virologia dell’Istituto nazionale per le Malattie Infettive Lazzaro Spallanzani di Roma, Maria Rosa Capobianchi.
Capobianchi fa parte del team di donne, composto da Concetta Castilletti e Francesca Colavita, che hanno isolato il nuovo Coronavirus in Italia.
“A gennaio – ha raccontato la direttrice del laboratorio dello Spallanzani – è venuto fuori che forse c’era qualcosa di preoccupante, cioè un cluster di polmoniti. E gli scienziati cinesi, devo dire a tempo di record, hanno scoperto l’agente, ne hanno pubblicato la sequenza con trasparenza e tempi migliori rispetto a quelli che hanno caratterizzato la risposta alla SARS. Una volta pubblicata la sequenza, tutti i laboratori di punta si sono organizzati per cercare di mettere a punto i metodi, tra cui anche noi. Subito dopo l’OMS ha pubblicato un protocollo diagnostico e lo abbiamo adottato sui primi pazienti che arrivavano con sospetto all’Istituto. La prima diagnosi l’abbiamo fatta il 29 gennaio, quando sono arrivati i due turisti cinesi, e non nascondo che ci sono stati attimi di trepidazione: eravamo ad un’attività di formazione e divulgazione interna per un aggiornamento e ricordo che i vari laboratoristi si scambiavano cenni dicendo ‘il test è in corso!’. Poi è venuto fuori che era positivo”.
A quel punto, ha raccontato Capobianchi, “ci siamo immediatamente attivati per mettere in piedi l’isolamento virale. Non è una pratica comune ma, quando ci sono i virus, bisogna avere il virus. La sequenza è stata resa disponibile fin dal 10 gennaio e quello è un dato importante, come la carta d’identità, perché si può usare per capire come confezionare il vestito a quel ricercato, ma non si può usare per capire le caratteristiche biologiche”.
Ma non basta neppure isolare il virus, perché “quando c’è un adattamento del virus ad una nuova nicchia ecologica, in questo caso l’uomo – ha spiegato la ricercatrice – è importante capire qual è la variabilità, quindi bisogna confrontarsi tra i vari laboratori per capire se l’agente che stiamo guardando si modifica, perché poi dobbiamo adattare i metodi diagnostici e capire qual è il suo potenziale. È importante allora che nelle prime fasi più laboratori facciano più sequenze e isolamenti – ha concluso – e che si mettano in comune in banche dati. Noi lo abbiamo inserito già in tre circuiti”.
“Abbiamo consegnato un lavoro che descrive la sequenza dell’intero genoma del virus e l’abbiamo determinata paragonandola alle altre sequenze. Al momento ci sono delle piattaforme di condivisione che sono state importanti per Ebola e che ora naturalmente sono molto importanti per il Coronavirus – ha proseguito Capobianchi – Ci sono un centinaio di sequenze già disponibili, che vengono da varie parti del mondo, alcune dalla Cina alcune da altri Paesi extra Cina che hanno registrato casi”.
“Al momento si vede che il virus si sta adattando e quindi ci si aspetta che mostri un po’ di variazione. Per ora c’è una tendenza molto piccola a cambiare. Quello che si può dire è che il virus va seguito perché si deve cercare di arrivare con l’analisi filogenetica, cioè con il paragone delle sequenze e l’identificazione delle somiglianze tra i ceppi, a descrivere una traccia evolutiva. Ed è quella che poi, modellizzandola ci potrà dire quanto ci aspettiamo di cambiamento nel corso del tempo”, ha concluso Capobianchi.