Roma, 22 aprile 2020 – Governo e Comitato tecnico-scientifico sono al lavoro per delineare le strategie da mettere in campo nella Fase 2 dell’emergenza coronavirus. Tra gli argomenti più discussi, le future regole di comportamento dei cittadini: prima tra tutte, quella legata alla questione dell’app ‘Immuni’. L’agenzia Dire ne ha parlato via Skype con il prof. Maurizio Sanguinetti, al quale ha chiesto anche dello studio che il dipartimento di Scienze di laboratorio e infettivologiche del Policlinico Gemelli di Roma ha visto pubblicare oggi su una rivista specialistica europea.
La curva del contagio scende e ormai poche settimane ci dividono dalla fine del lockdown ma non è finita. Come ci dovremmo comportare nei luoghi di lavoro open space o sui mezzi pubblici?
“Molte indicazioni sono state date, la linea guida è fare in modo che si ci siano meno occasioni possibili di contagio e poi mantenere il distanziamento sociale, pari almeno a un metro, indossare protezioni, sicuramente su tutte la mascherina, e lavarsi le mani. Le precauzioni sul luogo di lavoro ci sono, ma vanno ridotte in modo importante le situazioni di assembramento, come indicherà il Governo. Stessa cosa vale per i mezzi pubblici: infatti l’idea è di riproporre quanto realizzato in Cina, quindi ridurre il numero delle persone che utilizzano contemporaneamente i mezzi e questa è una grossa sfida per i decisori. Va ricordato, non vorrei essere una Cassandra, che questa è una situazione che ci porteremo avanti per molto tempo e bisogna convivere con questo modo di comportarsi. Quando avremo un vaccino dobbiamo pensare che non ci potrà proteggere in modo totale e in ogni caso c’è la necessità comunque di ridurre le possibilità di contagio”.
Secondo lei, la app Immuni, che per essere efficace deve essere scaricata dal 60% della popolazione, può aiutarci a tracciare i contagi in caso di nuove ondate di positività o è bene pensare ad altre strategie praticabili da tutta la popolazione?
“Nella mia mente è uno dei tre capisaldi per combattere efficacemente il virus: il primo, lo abbiamo detto, è costituito dal vaccino e dal distanziamento sociale; il secondo riguarda la messa a punto di terapie o raffinare quelle esistenti. Terzo, fare una diagnosi quanto più precoce possibile, che da clinico per me è la priorità. Dalle esperienze in varie parti del mondo, penso alla Corea ma anche a Taiwan, è emerso che fare solo tamponi per la diagnosi serve a poco. Ecco perché la app serve a tracciare gli spostamenti di ogni singolo individuo, da aggiungere ai test. Inoltre è utile perché nel momento in cui identifico una persona positiva, posso rintracciare tempestivamente tutte le persone con cui questa è entrata in contatto e dunque le persone potenzialmente infettate. Tutti i problemi sollevati legati alla privacy devono essere ben gestiti a livello istituzionale. Certamente, poi, più la scaricano meglio è. Per quanto riguarda gli anziani, già ora è meglio che escano di casa il meno possibile, quindi si può compensare la problematica della loro mancanza di confidenza con le app e la tecnologia con un lockdown prolungato”.
Forse dobbiamo sviluppare o rafforzare la medicina sul territorio per monitorare tutte quelle situazioni delle persone che sono a casa, che magari avvertono sintomi ma non sanno, perché nessuno gli ha fatto il tampone, se sono Covid positivi. Una volta usciti dal lockdown, possono circolare senza mettere in pericolo nessuno?
“Questa è uno dei punti dolenti dal mio punto di vista di microbiologo clinico. Siccome ci avviciniamo a questa situazione, possiamo incominciare anche a mettere in evidenza alcuni problemi. Uno tra questi, per quanto riguarda le malattie infettive in Italia, è che la microbiologia clinica è stata smantellata dal territorio. La microbiologia esiste nei grandi ospedali e viene vista come un lusso che non tutti si possono permettere. E questo è uno dei principali motivi per cui siamo in questa situazione, perché nel tempo si è dovuto sopperire alla mancanza di strutture in grado di eseguire diagnosi precise. Inoltre abbiamo, oltre al Covid-19, tutte le altre problematiche infettive in Italia che in questo preciso momento continuano ad andare avanti. Non dimentichiamo che questo è il motivo per cui in Italia c’è il più alto tasso di antibioticoresistenza in Europa e tra i più alti nel mondo. Questo è collegato anche alla mancanza di una diagnostica efficace dovuta a strategie economicistiche volte ad eseguire economia di scala, che è stata vista come una cosa virtuosa e che io considero viziosa. Avere laboratori microbiologici in pochi centri consente di tagliare il personale specializzato e acquisire i materiali a un costo minore, ma quello che si perde è il contatto con l’ospedale e con il reparto. Nel nostro Paese dall’inizio c’erano solo 50 centri in grado di analizzare i tamponi e questo ha comportato un ritardo nella esecuzione dei test e quindi si è meno efficaci nel contrastare l’epidemia. A lungo termine vanno ripotenziate le microbiologie sul territorio”.
Le malattie infettive vanno avanti anche in tempo di Coronavirus. Come vi state riorganizzando a livello ospedaliero per tornare a ripristinare tutti i servizi oltre quelli strettamente indifferibili? Resteranno attivi ancora nei prossimi mesi i Covid hospital?
“Per quanto riguarda il nostro Covid hospital, l’idea della Regione Lazio è quella di mantenerlo attivo come presidio insieme a strutture riconosciute e presenti nella regione per gestire la situazione attuale, che si sta spostando da una fase acuta a una fase cronica. Per evitare di andare incontro poi a problematiche intra-ospedaliere di trasmissione del virus l’attenzione diagnostica si sta spostando da chi può avere malattia a chi bisogna evitare che la contragga. Per almeno 6 mesi o un anno anche questa attività e queste strutture vanno mantenute in piedi. Per quanto riguarda più strettamente l’attività diagnostica del nostro laboratorio, noi abbiamo reagito modificando la nostra attività con bersaglio Sars-Cov-2 e cercando di mettere su un sistema che fosse attivo h24. Noi forniamo sedute diagnostiche fino alle 3 di notte tutti i giorni dall’1 marzo scorso e riceviamo intorno ai 400/450 campioni, che vengono gestiti in una giornata. Tutto questo ha comportato un rivoluzionamento delle diagnostiche riconvertite all’analisi di Covid con soluzioni piuttosto originali che abbiamo attuato al Gemelli. Proprio oggi è stato pubblicato un nostro lavoro scritto per descrivere questa nostra esperienza su European Journal of Clinical Microbiology & Infectious, rivista della società europea di microbiologia clinica e malattie infettive, proprio per condividere questa ristrutturazione del laboratorio per venire incontro all’emergenza. In nessun momento è stato tralasciato tutto il resto, che naturalmente è stato ridotto ma mantenendo i giusti tempi. Il risultato non è il mio, ma di tutto il personale che collabora con me nel laboratorio, che ha aderito a questo progetto in modo entusiastico e che io ringrazio sempre”.