Roma, 12 febbraio 2021 – “Due infermieri di comunità ogni 100.000 abitanti interamente dedicati alla pediatria”, che ricostituiscano un collegamento essenziale tra il bambino nei suoi primi 1.000 giorni, il suo nucleo, il pediatra di famiglia e tutti quei “servizi territoriali predisposti che cambiano da Comune a Comune. Un servizio che generi un’alleanza di più figure professionali per la risoluzione dei problemi della fragilità familiare”.
Ecco la nuova proposta targata Società Italiana di Pediatria Preventiva e Sociale (SIPPS), che mira a “raggiungere e intercettare l’intero universo della diade mamma-bambino attraverso il monitoraggio dei nuovi nati fin dalla loro iscrizione all’anagrafe comunale”. A illustrarla è Leo Venturelli, pediatra e responsabile SIPPS per l’Educazione alla Salute e per la Comunicazione, anche Garante dei diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza per il comune di Bergamo.
L’iniziativa prende vita in un momento “tragico per l’Italia, dove la pandemia ha generato nuovi tipi di povertà. Non soltanto una povertà economica, ma anche carente di relazioni positive in famiglia con il rischio che il nuovo nato abbia genitori meno attenti ai suoi problemi di crescita globale”. Perciò la SIPPS, a contrasto dell’attuale inasprimento delle fragilità familiari, propone di ripartire dai fatidici “1.000 giorni in cui si sviluppa l’organismo di un bambino, perché è in quella fase- spiega Venturelli- che il suo cervello è ancora plasmabile e ciò che può rappresentare un danno può risolversi più facilmente in un beneficio, se si opera un intervento nel momento e nelle modalità più adatte”.
Una figura poliedrica, “un case manager tanto con competenze sanitarie quanto sociali” che, proprio seguendo il modello sanitario britannico ‘dell’home visiting’, abbia 5 capacità fondamentali: “l’ascolto, l’osservazione, il porre domande al genitore, l’informare sui servizi disponibili sul territorio e, infine, il consigliare buone prassi perseguibili in termini di genitorialità efficace e responsabile”.
Le situazioni che la figura professionale potrebbe trovarsi di fronte durante visite domiciliari, sono diverse: dalla famiglia accogliente e senza rischi di tipo sociale, alle “mamme con tratti di trascuratezza, difficoltà nell’allattamento, problemi di depressione, a quelle con grave disagio economico e sociale. Si pensi per esempio a mamme single o straniere non ancora integrate”.
Le opzioni conseguenti spaziano da un intervento universalistico di educazione sanitaria, a possibili azioni selettive in base al problema emerso, come affidamento al servizio ostetrico del consultorio familiare, oppure all’invio presso servizi di tipo psicologico dei centri famiglia, fino alla più “drammatica situazione familiare che richiede un supporto dei servizi sociali comunali”.
Il modello dell’infermiere di comunità, tra l’altro, ha persino matrice governativa. Il pediatra ricorda, infatti, come nel Decreto Rilancio del maggio scorso si prevedesse “la presenza di 8 infermieri di comunità ogni 50.000 persone. Il che significa – riflette – che in comune di 100.000 abitanti potrei avere fino a 16 infermieri di comunità”. Da qui l’idea di destinarne alcuni, nello specifico, “non soltanto alla fragilità senile legata alla medicina territoriale, quant’anche alle problematiche del bambino con un forte legame alla pediatria di famiglia”.
Il momento “è opportuno e potrebbe essere propizio – ribadisce – soprattutto in vista del Recovery Fund che può aprire la strada a fondi e interventi di sostegno alle famiglie, che vanno programmati e precisati proprio in questa fase”. Una proposta che rappresenterebbe anche un passo in avanti nel contrastare la denatalità italiana: “Una famiglia che si sente supportata dallo Stato, dagli specialisti e dalle associazioni di riferimento – aggiunge il pediatra – è una famiglia che può decidere di fare figli, con meno paura del futuro”.
Il ruolo dell’infermiere domiciliare deve poi connettersi, “tramite report e analisi degli indicatori di fragilità, al pediatra che prenderà in carico la famiglia e il bambino, attraverso le visite filtro e i bilanci di salute”, elementi centrali per svolgere “una medicina che non sia di attesa bensì di iniziativa”. L’input dell’infermiere, in questo senso, faciliterà “il passaggio di consegne e la gestione sanitaria e sociale del bambino, nella sua crescita, alimentazione e nel suo sviluppo neuromotorio ed educativo”.
Sicuramente, un progetto di questo tipo deve partire “dalla mappatura delle reti di servizi sul territorio: le aziende sanitarie, i pediatri, i comuni, le istituzioni – enumera l’esperto – e non solo”. I gruppi di lavoro devono poter contare sui “servizi aggiuntivi di comunità, come l’SOS Mamme, l’assistenza no profit, il terzo settore e il volontariato. Gli esempi non mancano: le stesse parrocchie o la Caritas in questo periodo hanno dato un grosso contributo a tutte le iniziative di contrasto alla fragilità familiare, affiancandosi all’istituzione pubblica”.
Da non dimenticare, infine, anche il ruolo dei Punti nascita, delle Patologie neonatali e dei Centri di neuropsichiatria infantile, “ultimamente lasciati piuttosto a loro stessi, con reparti pieni, ora come ora, di adolescenti con patologie depressive e da autolesionismo”. Poli che, nella proposta Sipps, devono entrare a buon diritto nella mappatura delle strutture deputate a farsi carico dei bambini più a rischio, come quelli prematuri e quelli con disabilità neuroevolutive”.
Tutti gli attori degli interventi sopramenzionati devono arrivare a unire le loro forze in un gioco di squadra per dare tutto il sostegno possibile a creare “una comunità accogliente dove siano ridotte al minimo le diseguaglianze e vengano valorizzate le azioni protettive a tutelare il bambino nel suo sviluppo completo sia fisico che psicologico e relazionale, non trascurando l’alimentazione, l’ambiente, la sicurezza e una genitorialità responsiva”.