Lo dice un team internazionale di scienziati, cui ha partecipato l’Istituto di scienze dell’atmosfera e del clima del Cnr, in un articolo pubblicato su Nature Climate Change. Sul Plateau Tibetano, per esempio, il maggior aumento è stato di 0.7 °C per decade al di sopra dei 4.000 m negli ultimi venti anni. Ma studiare i cambiamenti in corso alle alte quote non è facile: i dati sono scarsi, la densità di stazioni meteorologiche al di sopra dei 4.500 m è circa un decimo di quella nelle regioni sottostanti e al di sopra dei 5.000 m mancano serie storiche lunghe di dati
Roma, 23 maggio 2015 – Con aspetti che per certi versi ricordano l’ambiente artico, le regioni montane d’alta quota sono soggette a un riscaldamento spesso più intenso e più rapido di quello delle regioni circostanti, con possibili cambiamenti del ciclo idrologico e nella disponibilità di risorse idriche, perdita di biodiversità, possibile estinzione di alcune specie di flora e fauna.
È quanto ha messo in luce, in un articolo recentemente pubblicato sulla rivista Nature Climate Change, un team internazionale di scienziati che coinvolge l’Istituto di scienze dell’atmosfera e del clima del Consiglio nazionale delle ricerche (Isac-Cnr) di Torino. “Studiare i cambiamenti in corso alle alte quote non è facile – afferma Elisa Palazzi dell’Isac-Cnr e co-autrice dell’articolo – Le montagne sono ambienti variegati, caratterizzati da una rapida alternanza di paesaggi e microclimi che rendono difficile acquisire una visione di insieme. I dati provenienti da queste regioni remote e di difficile accesso sono scarsi, talvolta inesistenti. Monitorarle in modo efficace è ancora molto dispendioso e costituisce una sfida scientifica e tecnologica importante”.
La densità di stazioni meteorologiche al di sopra dei 4.500 m sopra il livello del mare è circa un decimo di quella nelle regioni sottostanti. Al di sopra dei 5.000 m non sono disponibili serie storiche lunghe di dati osservati, cruciali per rilevare le tendenze climatiche: la più lunga oggi disponibile, sulla vetta del Kilimanjaro, è relativa a circa 10 anni, periodo troppo breve per stimare i trend.
“Nonostante queste difficoltà e le incertezze, le misure disponibili indicano che in molte regioni di alta quota si assiste davvero a un aumento delle temperature più rapido che nelle aree circostanti – prosegue la ricercatrice Isac-Cnr – L’esempio più significativo è costituito dal Plateau Tibetano, l’altopiano più alto al mondo, comprendente gran parte della catena himalayana. Tra il 1961 e il 2012 si è assistito a un aumento continuo di temperatura di 0.3-0.4 °C/decade, maggiore man mano che si sale di quota. Se valutato nel periodo più recente 1991-2012, il trend si attesta attorno a 0.7 °C/decade al di sopra dei 4.000 m e 0.3-0.4 sotto i 2500 m”.
“Informazioni dettagliate sulle regioni montane permetterebbero di determinare con anticipo l’evoluzione prevedibile nei prossimi decenni e di preparare misure adeguate di prevenzione, adattamento e mitigazione. È quindi essenziale migliorare le capacità osservative sia con strumenti e reti di monitoraggio in quota sia da satellite, e affiancare alle misure simulazioni di modelli climatici ad alta risoluzione – conclude Palazzi – Un obiettivo irraggiungibile senza finanziamenti adeguati e accordi e collaborazioni a livello internazionale”.
Il team che ha collaborato alla stesura dell’articolo comprende ricercatori provenienti da Regno Unito, Stati Uniti, Svizzera, Canada, Ecuador, Pakistan, Cina, Italia, Austria e Kazakistan, che hanno analizzato e interpretato dati di temperatura misurati negli ultimi 60-70 anni in diverse regioni di montagna del mondo. Il lavoro nasce nell’ambito di un’iniziativa internazionale chiamata “Mountain Research Initiative (Mri, http://mri.scnatweb.ch/)” finanziata dall’Agenzia nazionale svizzera.
fonte: ufficio stampa