Intervista al prof. Giario Conti, Primario di Urologia, Ospedale Sant’Anna, Como; Segretario Generale SIUrO – Società Italiana di Urologia Oncologica
Che importanza hanno l’approccio multidisciplinare e la collaborazione tra urologo, oncologo e radioterapista sia nella fase che precede la diagnosi sia nel successivo percorso di cura? Che cosa si sta facendo per rafforzare questo tipo di approccio?
Lavorare in team, includendo tutte le figure specialistiche necessarie per la valutazione e il trattamento più idoneo per un tumore della prostata, oggi è un’esigenza non più rimandabile. L’approccio multidisciplinare dovrebbe essere la regola, non l’eccezione, dal momento che lo scenario dei trattamenti si è arricchito di possibilità terapeutiche in tutte le fasi di malattia; le scelte sono diventate più complesse che in passato e richiedono diverse competenze. Solo un team di esperti, che includa l’urologo, l’oncologo medico e l’oncologo radioterapista, ma anche altre figure come il patologo, il radiologo, il medico nucleare, il riabilitatore, lo psicologo etc., in stretta e organica relazione tra loro, è in grado di curare al meglio il tumore, ma anche il corollario di complicanze che possono essere indotte dalle terapie stesse.
Il problema è che questa realtà non è tale ovunque: in Italia siamo ancora molto indietro rispetto a Paesi come Francia, Gran Bretagna, Germania, Stati Uniti e Canada, ormai attrezzati in tal senso. Anche nel nostro Paese però il percorso è stato avviato, da qualche tempo è partito il progetto TMD, al quale stanno lavorando sette Società scientifiche nel settore dell’oncologia, della radioterapia e dell’urologia, che dovrebbe favorire e regolamentare la nascita dei team multidisciplinari e, in seguito, delle Unità di patologia come le Prostate Cancer Unit, che attualmente sono solo 5 o 6 sul territorio nazionale, sebbene almeno 22 Centri, aderenti al progetto PERSTEP di SIUrO e CIPOMO, abbiano iniziato a lavorare secondo il concetto della multidisciplinarietà, come accade da anni per il tumore della mammella.
La creazione di Prostate Cancer Unit migliorerà l’aderenza alle linee guida e l’appropriatezza dei protocolli diagnostici e terapeutici.
Quali sono le strategie terapeutiche disponibili farmacologiche e non, per il trattamento del tumore della prostata? Come si sono evolute in questi anni? Quali progressi sono stati ottenuti?
Il trattamento del carcinoma prostatico comprende diverse opzioni che vanno dalla chirurgia alla radioterapia, dall’ormonoterapia alle terapie sistemiche con farmaci di vario genere. La scelta della terapia dipende dalle caratteristiche del paziente e della malattia. Tutti i trattamenti hanno subito nell’ultimo decennio un’evoluzione importante, contribuendo a ridurre la mortalità per questo tipo di neoplasia e un miglioramento della qualità della vita.
Per i trattamenti farmacologici disponibili distinguiamo a seconda della fase della malattia: i pazienti metastatici all’esordio (meno del 10%), trattati inizialmente con terapia ormonale; così come i pazienti che progrediscono dopo un trattamento locale e diventano metastatici nel corso della loro storia. Per i pazienti che vanno in progressione in corso di terapia ormonale di prima linea, i cosiddetti ‘resistenti’ alla castrazione, esiste oggi un ampio ventaglio di opzioni terapeutiche: farmaci chemioterapici, un radiofarmaco e farmaci ormonali di nuova generazione. Tutti si sono dimostrati capaci di aumentare la sopravvivenza e di migliorare la qualità di vita, per esempio riducendo l’incidenza di eventi scheletrici come le fratture patologiche.
Il più recente ad essere stato registrato in fase pre-chemioterapia (oltre che post-chemioterapia), è enzalutamide, che è risultato efficace sia nei pazienti con metastasi ossee sia nei pazienti con metastasi viscerali, prolungando il controllo di malattia e la sopravvivenza e riducendo il rischio di eventi scheletrici. In pochi anni, a partire dal 2004, siamo passati dal non avere alcun farmaco capace di migliorare la sopravvivenza nei pazienti resistenti alla castrazione, alla disponibilità di diverse opzioni farmacologiche efficaci.
Come cambia l’approccio terapeutico in funzione dello stadio del tumore prostatico? Che risultati offrono le varie opzioni terapeutiche?
Lo stadio del tumore è fondamentale per la scelta della terapia. Per i pazienti a rischio basso, con malattia clinicamente localizzata, il trattamento può essere solo locale: chirurgia, radioterapia, brachiterapia, terapia focale. Vi è anche una quota di pazienti con tumore cosiddetto ‘indolente’ che possono essere inseriti all’interno di programmi di sorveglianza attiva che prevedono una attenta osservazione nel tempo con controlli periodici; questi soggetti diventano candidabili alla chirurgia o alla radioterapia solo se la malattia progredisce.
Man mano che il rischio aumenta il trattamento diventa più ‘importante’, multimodale con la combinazione di due o più trattamenti (per esempio chirurgia e radioterapia o radioterapia e ormonoterapia). Se la malattia è metastatica si ricorre invece ai trattamenti sistemici.
Nei pazienti con caratteristiche istologiche del tumore sfavorevoli può essere necessario dopo la chirurgia utilizzare terapie adiuvanti, quali la terapia ormonale o la radioterapia. Bisogna dire che in poco più di 10 anni nel paziente metastatico e resistente alla castrazione, si è passati da un’aspettativa media di sopravvivenza di 9 mesi a più di 35 mesi. Questo si può ottenere utilizzando al meglio i trattamenti disponibili e all’interno di un team multidisciplinare.
Come verrà utilizzata questa nuova opzione terapeutica e quali pazienti ne potranno beneficiare?
Enzalutamide può essere indicato come prima linea di trattamento pre-chemioterapia nei pazienti metastatici resistenti alla castrazione e con entrambi i tipi di metastasi, ossee e viscerali. In più, il farmaco può essere utilizzato nei pazienti con le medesime caratteristiche ma che hanno fallito la chemioterapia; in questi casi diventa un trattamento di seconda linea.