Numerosi studi hanno dimostrato la connessione tra cambiamenti climatici e incremento della dermatite atopica, e anche tra inquinamento ambientale e aumento della patologia. La cute dei soggetti affetti da dermatite atopica è infatti maggiormente sensibile se esposta a ossido di azoto, ozono e idrocarburi policiclici aromatici (IPA). Non solo, l’esposizione delle future mamme agli agenti inquinanti favorisce i rischi di sviluppo della dermatite atopica entro i primi sei mesi di vita del neonato
Messina, 29 maggio 2024 – Per ridurre il rischio di sviluppo ed esacerbazione delle patologie della cute, in particolar modo della dermatite atopica, occorrono strategie di politiche ambientali che limitino l’utilizzo dei combustibili fossili, promuovano pratiche di gestione sostenibile del territorio riducendo la quantità di inquinamento atmosferico e prevedano l’installazione di dispositivi di filtraggio dell’aria negli ambienti indoor.
Numerosi studi hanno infatti dimostrato non solo la connessione tra cambiamenti climatici e incremento della dermatite atopica, ma anche tra inquinamento ambientale e aumento della patologia. Inoltre, il trend in crescita dell’inquinamento atmosferico, dovuto soprattutto all’incremento dei veicoli a motore e all’uso del carbone per la produzione di energia elettrica, impatta sulla salute umana sin dall’età prenatale.
L’esposizione delle future mamme agli agenti inquinanti favorisce infatti i rischi di sviluppo della dermatite atopica entro i primi sei mesi di vita del neonato. Anche l’inquinamento derivante dagli incendi boschivi ha le sue ripercussioni in termini di aumento dei casi di dermatite atopica negli adulti e nei bambini.
A puntare i riflettori sul binomio inquinamento e cute e le ricadute sulla dermatite atopica sono i dermatologi della SIDeMaST, Società Italiana di Dermatologia e Malattie Sessualmente Trasmesse riuniti in occasione del 98° Congresso nazionale in corso a Giardini Naxos (ME) fino al 31 maggio.
La dermatite atopica è una malattia cutanea infiammatoria cronica caratterizzata da un difetto della barriera cutanea ed una alterata risposta immunitaria a sostanze irritanti e allergizzanti. Può insorgere in qualunque epoca della vita ed è caratterizzata dalla presenza di eczema con intenso prurito e importante impatto negativo sulla qualità di vita dei pazienti.
È in costante aumento in termini di incidenza e prevalenza, soprattutto nei paesi industrializzati. In Europa e negli Stati Uniti, dati recenti (NOTE 1,2) suggeriscono che coinvolga circa il 20% dei bambini e il 7-14% degli adulti, con sostanziali variazioni tra i diversi Paesi.
“È noto – afferma il prof. Luca Stingeni, Presidente del 98° Congresso Nazionale SIDeMaST, Professore Ordinario di Dermatologia dell’Università di Perugia e Direttore della Clinica Dermatologica e del Dipartimento di Medicina Generale e Specialistica dell’Azienda Ospedaliera di Perugia – che variabili climatiche come la temperatura, l’umidità dell’aria, il carico di pollini e l’esposizione ai raggi UV influenzino i segni e i sintomi della dermatite atopica. Ma più recentemente, l’inquinamento ambientale è stato segnalato come fattore di induzione e/o aggravamento della patologia atopica attraverso molteplici meccanismi biologici. Tra questi, la formazione di radicali liberi dell’ossigeno (ROS), lo stress ossidativo, la compromissione della barriera cutanea e una risposta infiammatoria”.
Considerando che, la cute rappresenta l’organo più esteso del corpo umano e funge da barriera tra l’organismo e l’ambiente esterno, il costante contatto con l’ambiente e gli inquinanti atmosferici può danneggiare direttamente la funzione di barriera cutanea e alterare l’omeostasi, vale a dire il processo che tende a mantenere stabili le condizioni interne all’organismo. Questa alterazione contribuisce allo sviluppo e all’esacerbazione delle malattie cutanee, tra le quali la dermatite atopica. In particolar modo, la cute dei soggetti che ne sono affetti è maggiormente sensibile se esposta a ossido di azoto, ozono e idrocarburi policiclici aromatici (IPA).
“L’alterazione della funzione della barriera epidermica – spiega l’esperto – viene misurata dal Dermatologo con la metodica TEWL (Trans Epidermal Water Loss), ovvero lo studio della perdita di acqua attraverso l’epidermide. Già nel 1998 uno studio condotto a Monaco (NOTA 3) ha dimostrato che se si espone la cute di soggetti affetti da dermatite atopica al biossido di azoto presente in un ambiente inquinato aumenta la TEWL quale indicatore di compromissione della barriera cutanea”.
Più recentemente (2018), alcuni studiosi cinesi (NOTA 4) hanno dimostrato che l’alterazione della barriera cutanea è in grado di generare radicali liberi e alterazioni strutturali delle membrane cellulari delle cellule dell’epidermide. È stato provato inoltre che la sua funzione è compromessa dall’esposizione al particolato.
Per valutare gli effetti dell’inquinamento atmosferico sulla dermatite atopica sono stati condotti in Europa numerosi studi che, sebbene non omogenei per inquinanti presi in esame, fonte di inquinamento e concentrazione delle sostanze inquinanti, hanno prospettato un rischio più elevato di sviluppare dermatite atopica ed esacerbazione dei sintomi della malattia quando vi è una maggiore esposizione agli inquinanti atmosferici.
“Per esempio – continua il prof. Stingeni – i neonati, che presentano fisiologicamente una immatura barriera cutanea, possono essere particolarmente vulnerabili allo sviluppo di dermatite atopica quando vivono in aree urbane. In uno studio tedesco condotto nel 2009 (NOTA 5) è stato dimostrato che la vicinanza alle grandi arterie stradali e la maggiore esposizione ad aria inquinata (in particolare, al particolato PM2,5) durante la prima infanzia, sono associati a una maggiore prevalenza di dermatite atopica. Questi risultati sono supportati da studi più recenti condotti in Sud America e Corea (NOTE 6-8) in pazienti in fascia d’età pediatrica, che hanno dimostrato che l’esposizione ai cosiddetti TRAP (traffic-related-air-pollutants) correlava positivamente con una aumentata prevalenza di eczema flessurale sia nei maschi che nelle femmine”.
Questi risultati sono in linea con i risultati di altri studi condotti nel continente asiatico che dimostrano come l’esposizione al biossido di azoto nei primi anni di vita sia associata a una maggiore incidenza di dermatite atopica. Inoltre, continua l’esperto, “l’esposizione al biossido di azoto e particolato prima della nascita (soprattutto nel primo trimestre di gravidanza), aumenterebbero significativamente il rischio di sviluppo di dermatite atopica prima dei 6 mesi di età. In un altro studio è stato notato che anche l’esposizione postnatale agli stessi inquinanti era associata a una ridotta remissione della dermatite atopica dopo l’infanzia, con persistenza della malattia”.
Infine, alcuni recenti studi epidemiologici condotti in Cina, Corea e Turchia (2021-2022) hanno dimostrato correlazioni positive tra la scarsa qualità dell’aria e le visite mediche effettuate per dermatite atopica sia nei bambini che negli adulti. Uno studio condotto nel 2019 (NOTA 9) ha messo in correlazione l’incremento di visite dermatologiche per dermatite atopica degli adulti e dei bambini con l’incremento delle concentrazioni di particolato PM2,5, PM10, biossido di azoto e biossido di zolfo. La stessa correlazione è stata dimostrata con l’inquinamento da incendi boschivi, sia nei bambini che negli adulti (NOTA 10).
“L’impatto dell’inquinamento sul decorso della dermatite atopica – conclude il prof. Stingeni – e le importanti ripercussioni per il SSN dovrebbero essere valutati su ampie casistiche di pazienti, correlando questi dati alla presenza di malattia cutanea e alla gravità dei sintomi. Al tempo stesso è necessario invertire la tendenza a favore di politiche ambientali che riducano l’inquinamento atmosferico. Da un punto di vista della gestione clinica, è meritevole segnalare che alcuni dispositivi mirati al miglioramento della funzione barriera della cute riportano la dicitura “anti-pollution”, confermando come la ricerca clinica in tema di inquinamento ambientale e dermatite atopica stia producendo evidenze scientifiche su cui si basano le innovazioni terapeutiche per questa importante patologia infiammatoria cronica”.