Artrite reumatoide, spondiloartriti e malattie croniche intestinali. La gravidanza è possibile

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Roma, 12 ottobre 2017 – Nel 2017 le donne che soffrono di malattie autoimmuni a manifestazione gastro-reumatologica come spondiloartriti, artrite reumatoide, malattie infiammatorie croniche intestinali, etc. possono finalmente avere un figlio, partorire e poi allattare, senza più specifiche controindicazioni. La gravidanza va però programmata con attenzione, scegliendo il momento in cui la malattia sia in uno stato stabile di quiescenza, apportando alcune modifiche alla terapia farmacologica assunta, in modo tale da non arrecare danni né alla madre né al feto ma soprattutto facendosi seguire, sin dalle prime fasi della gestazione, da un team medico multidisciplinare.

Sono le rassicuranti indicazioni che emergono dalla due giorni di contributi scientifici e dibattiti che si sono alternati in occasione del 4° Congresso Nazionale della Società Italiana di Gastro Reumatologia – SIGR a Roma il 6 e 7 ottobre e in cui è emerso come l’80% dei pazienti reumatologici si componga di giovani adulti dai 18 ai 65 anni attivi e con un’ampia rappresentanza di donne in età fertile che desidera avere figli.

“La gravidanza certamente è una condizione fisiologica che tuttavia, in pazienti con malattie reumatiche autoimmuni, determina alcune problematiche” sottolinea il prof. Bruno Laganà, presidente della Società Italiana di Gastro Reumatologia.

“Si è portati spesso a prescrivere una riduzione dei farmaci in corso di gravidanza, nella convinzione che soprattutto i farmaci reumatologici siano dannosi per il feto e per la madre. Oppure, si ritiene che alcune malattie come l’artrite reumatoide possano avere una remissione dovuta alla gravidanza e quindi permettere, secondo alcuni medici, la sospensione dei farmaci. Questo assunto è stato smentito dalle nuove ricerche scientifiche: per esempio, sappiamo che adesso è possibile somministrare anche in gravidanza farmaci in uso per la terapia dell’artrite reumatoide; ma anche che alcune molecole della famiglia di anti-TNF presenti nei farmaci biologici possono essere presi per tutti e nove i mesi”, conclude Laganà.

In particolare, “le donne affette da spondiloartrite (SpA) o malattie infiammatorie croniche intestinali (MICI) possono avere gravidanze di successo se seguite da un team multidisciplinare (reumatologo, gastroenterologo, ginecologo-ostetrico, dermatologo, oculista, etc.) che attui un monitoraggio del benessere materno-fetale e imposti una terapia, compatibile con la gravidanza, mirata al mantenimento della remissione della malattia materna in accordo con il corretto sviluppo del feto – interviene la dott.ssa Micaela Fredi, U.O. Reumatologia e Immunologia Clinica agli Spedali Civili di Brescia in occasione del Congresso romano – I controlli sia in senso reumatologico ma soprattutto ostetrico da effettuarsi sono senz’altro più frequenti rispetto a quelli da farsi in corso di una gravidanza normale; peraltro, la probabilità di avere un bimbo con anomalie congenite non è specifica ma sovrapponibile a quella della popolazione generale”.

“Ad oggi – continua la dottoressa Fredi – un numero sempre crescente di giovani donne in condizioni di SpA e MICI riceve terapia con farmaci biotecnologici. La posizione iniziale dei medici prevedeva il mantenimento della terapia con anti-TNFalfa fino al test di gravidanza positivo e poi una precauzionale sospensione di tale terapia. Tuttavia l’incremento dei dati a disposizione attualmente permette di continuare la terapia con anti-TNFalfa fino al terzo trimestre o per tutta la gravidanza (a seconda del farmaco utilizzato). È importante che i farmaci utilizzati in gravidanza siano compatibili anche con l’allattamento, pur se alcuni studi clinici hanno riportato basse concentrazioni di farmaco a livello del latte materno: gli anticorpi sono proteine di grosse dimensioni che passano dal tratto gastrointestinale e quindi subiscono un processo di digestione”.

Ad una buona parte di pazienti, le terapie attuali garantiscono di mantenere una remissione prolungata. Il controllo degli indici d’infiammazione (ad esempio velocità di sedimentazione delle emazie, proteina C reattiva), insorgenza o peggioramento di anemia può portare ad individuare precocemente la riacutizzazione della malattia.

“Le donne con malattia reumatica possono comunque presentare una riacutizzazione nei mesi successivi al parto, talvolta dopo poche settimane – avverte la dottoressa Fredi – Pertanto, uno stretto monitoraggio clinico e laboratoristico è raccomandabile a partire da 40-50 giorni dopo il parto e per almeno i successivi 6 mesi”.

Infine, le malattie infiammatorie intestinali possono comportare la necessità di un parto cesareo, dovuto al rischio di emorragie col parto vaginale? A quest’ultimo quesito risponde ancora la dott.ssa Micaela Fredi, specificando che “l’indicazione alla modalità del parto, che sia vaginale o tramite cesareo deve essere discussa collegialmente. Ad esempio nelle pazienti con Spondiloartrite potrebbe essere necessario suggerire il taglio cesareo nel caso in cui gli esiti di malattia (soprattutto a livello del rachide e degli arti inferiori) rendessero meccanicamente difficoltoso un parto per via vaginale. Le pazienti con MICI invece hanno un elevato rischio di parti cesarei rispetto alla popolazione ostetrica generale; la modalità del parto è decisa dai colleghi ostetrici e basata sia su indicazioni di pertinenza ostetrica, sulla attività e localizzazione della malattia materna e sulla volontà della paziente”.

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