Roma, 25 maggio 2020 – Tutti sanno cos’è l’appendicite, per averlo letto o per averne avuta esperienza diretta in famiglia o perché capitata a qualche amico. Dal punto di vista medico è un’infiammazione acuta dell’appendice (una formazione tubolare, vermiforme che fa parte dell’intestino crasso) e rappresenta una delle più frequenti cause di dolore addominale acuto, che a sua volta dà conto del 7-10% di tutti gli accessi al pronto soccorso.
Per quanto possa sembrare scontato che diagnosticare questa condizione costituisca l’ABC di qualsiasi medico o chirurgo, nella realtà i quadri clinici e le conseguenti indicazioni terapeutiche possono essere molto diversi.
Ce lo ricorda l’enorme sforzo effettuato dalla World Society of Emergency Surgery (WSES) che, nel 2015, ha organizzato a Gerusalemme la prima consensus conference sulla diagnosi e il trattamento dell’appendicite acuta negli adulti, con l’obiettivo di mettere nero su bianco delle linee guida basate sulle evidenze scientifiche.
Lo scorso giugno i criteri di Gerusalemme sono stati rivisti nell’ambito di una nuova consensus tenutasi a Nijemegen (Olanda) e le linee guida aggiornate sono state pubblicate di recente su World Journal of Emergency Surgery. Ne abbiamo parlato con uno degli autori, il prof. Gabriele Sganga, direttore della UOC Chirurgia d’Urgenza della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS e Professore associato di Chirurgia Generale, Università Cattolica del Sacro Cuore, campus di Roma.
Le dimensioni del problema
Nell’arco della vita, ognuno di noi ha un rischio dell’8-9% di incorrere in un’appendicite acuta; il tasso di perforazione (una delle possibili gravi complicanze) varia dal 16 al 40% ed è più frequente tra i giovani e tra gli over 50. I primi interventi per appendicite risalgono al 1800 e ogni anno se ne effettuano 300 mila negli Usa e 50-60.000 in Italia.
“In passato – ricorda il prof. Sganga – si ricorreva anche alla cosiddetta ‘appendicectomia profilattica’ perché come le tonsille, si riteneva che asportare queste strutture linfatiche potesse scongiurare il pericolo di incorrere appunto in appendiciti e tonsilliti. Oggi questo atteggiamento è stato abbandonato ma, in caso di appendicite, si tende comunque ad operare: perché l’intervento è facile (oggi si può effettuare anche per via laparoscopica), perché le recidive sono frequenti, perché si possono evitare aderenze infiammatorie che possono arrivare a pregiudicare una gravidanza nelle donne e ancora perché una piccola percentuale di casi (0,5-1,8%), soprattutto al di sopra dei 50 anni, nasconde la presenza di un tumore”.
La diagnosi è un mix di clinica, esami di laboratorio e radiologici (es. ecografia, TAC, ecc.). “I sintomi clinici dell’appendicite, che sono poi quelli che portano il paziente in pronto soccorso – spiega il prof. Sganga – sono davvero tipici nella maggior parte dei casi. E questo è un bene perché praticamente tutti sono in grado di riconoscere il dolore da appendicite (il cosiddetto punto appendicolare o di McBurney, come lo chiamano i chirurghi) e quali sono i suoi sintomi. Si comincia con un lieve dolore epigastrico, che poi passa alla fossa iliaca destra, accompagnato da una leggera nausea e vomito, poi compare la febbre. Nelle forme più gravi si manifestano i sintomi della peritonite: il paziente non ce la fa più a camminare, sta bene solo sdraiato in posizione supina, accusa un dolore irradiato alla gamba destra, è pallido, sudato, ipoteso. La diagnosi, in presenza di questo quadro clinico, si completa rapidamente in pronto soccorso con esami del sangue ed ecografia. Nella diagnosi differenziale vanno tenute presenti le coliche ureterali e le patologie ovariche o tubariche”.
La presenza di elevati livelli di proteina C reattiva (> 10 mg/L) e di globuli bianchi (> 16.000/mL) sono importanti conferme diagnostiche insieme al dolore addominale e a un addome poco trattabile in fossa iliaca destra.
Una ecografia addominale “point of care” (POCUS), cioè al letto del malato, è di grande utilità nel dirimere la diagnosi ed evita il ricorso alla TAC (che va comunque effettuata nei casi complicati da peritonite), almeno nella metà dei casi, o negli anziani.
La terapia dell’appendicite acuta
Le forme non complicate di appendicite possono essere gestite con la sola terapia antibiotica, ma decidere se (e quando) operare o meno, resta una decisione complessa. “Le appendiciti – spiega il prof. Sganga – possono essere distinte in ‘complicate’ e ‘ non complicate’. Nel nostro Policlincio, dal Luglio 2014 al Luglio 2019, 575 pazienti sono stati sottoposti ad intervento chirurgico di appendicectomia; 171 di questi pazienti, quindi poco meno del 30%, presentavano all’esordio un’appendicite complicata. Dal punto di vista chirurgico, quelle ‘complicate’ sono patologie infiammatorie intra-addominali che necessitano allo stesso tempo di una terapia chirurgica e antibiotica. Ma nella realtà i quadri sono molto più sfumati e non di rado si assiste al rapido passaggio di una forma cosiddetta non complicata ad una complicata; nell’arco di poche ore si può cioè passare da un lieve edema dell’appendice, ad un’appendicite purulenta, perforata, necrotica, o addirittura ascessualizzata, con quadri di peritonite circoscritta o diffusa. Quello che fa la differenza è il tempo (o timing); tutte le forme cominciano come appendiciti lievi, ma se si resta a casa anziché far valutare il quadro ad un medico e meglio ad un chirurgo, l’appendicite può evolvere e si rischia di andare verso una forma talvolta assai grave”.
Antibiotici al posto del bisturi è quanto consigliano le linee guida appena pubblicate nei pazienti non complicati anche se, secondo recenti metanalisi, un paziente su 4 ripresenterà gli stessi sintomi nell’arco di un anno dal trattamento (soprattutto in presenza di calcoli all’interno dell’appendice) e il 39% nell’arco dei successivi 5 anni. Nelle donne in gravidanza la prima scelta resta l’intervento chirurgico.
“In caso di terapia antibiotica – spiega il prof. Sganga – bisogna coprire sia i batteri Gram positivi che i Gram negativi e soprattutto gli anaerobi. Gli antibiotici più indicati (per via endovenosa, eventualmente seguiti da qualche giorno di somministrazione per bocca) sono amoxilicillina/acido clavulanico o cefalosporine associate al metronidazolo. In caso di allergie agli antibiotici beta-lattamici, si può ricorrere ai chinolonici (es. ciprofloxacina), sempre associati a metronidazolo. La durata del trattamento dopo l’intervento chirurgico dipende da quanto efficace è stato il controllo della contaminazione intra-addominale, il cosiddetto ‘source control’. In caso di intervento ‘pulito’ gli antibiotici si possono sospendere dopo 24 ore; nelle forme più complesse la terapia va proseguita per almeno 2-4 giorni, e talvolta va modificata sulla base del tipo di complicanza e degli isolati microbiologici”.
In caso di appendicite complicata, non c’è da aspettare: l’indicazione è quella chirurgica. L’appendicectomia laparoscopica offre maggior vantaggi rispetto all’intervento tradizionale a cielo aperto; l’intervento laparoscopico potrebbe durare di più, ma dà meno dolore postoperatorio, meno complicanze infettive e il paziente va a casa prima.
È dunque la modalità di intervento di prima scelta sia nelle forme complicate che in quelle non complicate, sia negli adulti (preferito l’approccio tradizionale con i 3 buchini) che nei bambini (preferita la singola incisione trans-ombelicale).
“Dal Luglio 2014 al Luglio 2019, nella nostra Unità di Chirurgia d’Urgenza – fa notare il prof. Sganga – ben il 48% dei pazienti affetti da appendicite complicata è stato sottoposto ad intervento per via laparoscopica, con un trend in continua crescita negli ultimi anni”.