A cura del prof. Lucio Rinaldi dell’UOC di Psichiatria della Fondazione Policlinico Universitario A. Gemelli IRCCS e ricercatore del Dipartimento di Neuroscienze dell’Università Cattolica Campus di Roma
Roma, 17 febbraio 2020 – La tragica scomparsa del ragazzo di 20 anni che risulterebbe aver sofferto di Anoressia Nervosa impone alcune riflessioni su tale quadro psicopatologico. In primo luogo considerare l’Anoressia come una patologia molto diffusa (secondo le stime del Ministero della Salute attualmente avremmo circa 8-9 nuovi casi annui ogni 100.000 donne in Italia) all’interno di tutta una vasta gamma di Disturbi della Nutrizione e dell’Alimentazione (comprendenti la Bulimia Nervosa, il Binge-Eating, l’ortoressia, ecc.) che riguarderebbero 3-4 milioni di italiani.
Un ulteriore dato riguarda l’aumento dell’incidenza di Anoressia nel sesso maschile (da 0,02 a 1,4 nuovi casi ogni 100.000 persone (in un rapporto maschi/femmine di quasi 2 a 8).
In secondo luogo considerare che con il termine Anoressia intendiamo forme psicopatologiche con diverse caratteristiche di tipo biologico, sociale e psicologico. Abbiamo, infatti, forme evolutive (e cioè forme tipicamente adolescenziali per le quali la declinazione nel rapporto col cibo costituisce un modo per affrontare il travaglio evolutivo proprio di questa fase della vita).
Abbiamo poi forme nelle quali il rapporto con il corpo e con il cibo costituisce una modalità attraverso la quale arginare l’irruzione di più gravi patologie psichiatriche. In ultimo abbiamo forme di Anoressia con aspetti che si strutturano durante l’infanzia e l’adolescenza (tratti di personalità, alterato rapporto con il cibo sin dalla prima infanzia, un controllo radicale dell’esperienza emozionale e relazionale).
A seconda del prevalere di questa o quella forma avremo prognosi migliori (con livelli di risoluzione dell’70-80% circa), prognosi peggiori con possibile cronicizzazione (30-20%) e forme drammatiche con esito letale (tra 5-10%). In ogni caso la precocità dell’intervento e la qualità dello stesso sembrano fondamentali per una tempestiva guarigione.
L’Anoressia Nervosa è la principale causa di morte per patologie psichiatriche, con un rischio di morte 9-10 volte superiore a quello di persone dello stesso sesso e fascia d’età, con una mortalità maggiore nelle fasi avanzate della malattia per complicanze quali denutrizione, squilibri elettrolitici e suicidio.
Per un approccio adeguato risultano fondamentali: una buona integrazione fra psicoterapia e farmacoterapia; la presenza di tutti i livelli di assistenza necessari (quali attività ambulatoriali, Day-Hospital, Strutture Residenziali); la tempestività e la specificità delle cure in presenza di condizioni fisiche compromesse (presso la Fondazione Universitaria Policlinico Agostino Gemelli IRCCS di Roma esiste un percorso clinico-assistenziale che gestisce questi pazienti dal Pronto Soccorso e indirizza in maniera specifica nei servizi di cura ospedaliera, chiamato “Codice Lilla”); un monitoraggio accurato delle risorse presenti nel territorio e l’acquisizione di dati epidemiologici sempre più accurati; il coinvolgimento nel percorso terapeutico della famiglia.
L’Anoressia è, infatti, espressione tardiva di un disagio emotivo che si struttura nell’infanzia che si organizza all’interno delle relazioni d’accudimento e quindi all’interno dell’ambiente familiare. Dagli studi emergono quale indicatore precoce più rilevante la presenza di un “disagio emotivo” nella storia personale di coloro che svilupperanno tale patologia.
Prendersi cura dell’Anoressia è di conseguenza dare ascolto alla sofferenza emotiva del paziente e dei familiari costruendo opportunità alternative al controllo del corpo, del cibo e della relazione, che sono alla base di questa forma clinica.