Roma, 10 febbraio 2023 – “Tu non sai che peso ha questa musica leggera, ti ci innamori e vivi”. È una strofa del grande Gianni Morandi che con la sua “Uno su mille” martedì sera nel medley intonato con Massimo Ranieri e Albano ha incendiato di magia il palco dell’Ariston. Quanto di più vero. Perché c’è chi vive di musica e chi nella musica la vita la ritrova.
In questi giorni dominati dalla visione e dagli ascolti del Festival di Sanremo nella RSA del Gruppo San Raffaele sono in corso laboratori di musicoterapia volti alla stimolazione cognitiva dei pazienti affetti da varie forme di declino cognitivo tra cui l’Alzheimer, attraverso l’ascolto di canzoni che sono state spesso colonne sonore della loro vita e cantanti interpreti delle loro risate e delle loro lacrime.
Ma la musica ha davvero accesso al salience netowrk del cervello, che, come hanno affermato alcuni ricercatori, non viene intaccato in questi pazienti?
“Secondo un recente studio della NorthwesternUniversity (Usa), realizzato in collaborazione con l’Institute for Therapythrough the Arts (ITA) e pubblicato su Alzheimer Disease and Associate Disorders – spiega il prof. Paolo Maria Rossini, Responsabile del Dipartimento di Neuroscienze e Neuroriabilitazione dell’IRCCS San Raffaele – Le emozioni prodotte dall’ascolto di musica amata durante la giovinezza resisterebbero sia all’Alzheimer, che alla demenza. È infatti ben noto come l’ascolto musicale abbia effetti protettivi verso i processi di neurodegenerazione che sottostanno le varie forme di demenza tra cui la più diffusa e nota: l’Alzheimer”.
La demenza è una malattia neurodegenerativa caratterizzata dalla progressiva compromissione di uno o più domini cognitivi, come la memoria, l’attenzione, le funzioni esecutive e il linguaggio.
“Dal 2001 la musica è stata introdotta come tecnica non farmacologica per migliorare le funzioni cognitive e, in particolare, i disturbi comportamentali nei pazienti affetti da demenza (Mitchell G. & Agnelli J., 2015) – continua Rossini – la sua efficacia terapeutica sembra basarsi sulla preservazione della memoria musicale anche in fasi più avanzate di malattia, grazie a cui il paziente con demenza sembra conservare intatte le abilità e competenze musicali fondamentali, intonazione, sincronia ritmica, senso della tonalità (Jacobsen J.H. et al., 2015)”.
La musica può dunque essere una strada alternativa anche per comunicare con pazienti nei quali la memoria linguistica e visiva sono danneggiate precocemente?
“I circuiti cerebrali che sottostanno il linguaggio parlato/ascoltato e il linguaggio musicale sono in parte sovrapponibili, ma è frequente l’osservazione che a fronte di un danno consistente del linguaggio parlato, quello musicale e il canto di testi musicali sono molto meno danneggiati. La musica ha un effetto per lo più calmante nei confronti di sintomi comportamentali quali agitazione psico-motorie e aggressività in pazienti con demenza. Inoltre, i circuiti musicali hanno collegamenti molto stretti con quelli dedicati alla memoria”.
“In particolare, analogamente ai ricordi delle prime fasi della propria vita (infanzia e gioventù) che scompaiono per ultimi, anche i ricordi delle canzoni in voga negli anni della nostra gioventù permane molto a lungo. Sentire e cantare queste canzoni, quindi, aiuta a controllare i momenti di agitazione e richiama l’attenzione (spesso molto ondulante e capricciosa) del malato. Per motivi solo in parte chiariti, le memorie autobiografiche vengono maggiormente e più a lungo conservate rispetto ad altri tipi di memorie (p.es. quelle derivanti dall’osservazione di fotografie della propria infanzia/gioventù) nei malati di Alzheimer”.
Certo, “il passato non potrà tornare uguale mai” canta sempre Morandi ma la felicità, come sostiene Albano, può anche essere “una sera a sorpresa, la luna accesa e la radio che va”. E allora Sanremo, che non sono solo canzonette, ha già vinto.