A cura del prof. Alessandro Padovani, Direttore Clinica Neurologica Università di Brescia
Roma, 9 dicembre 2022 – Qualcosa si sta muovendo nella cura della Malattia di Alzheimer, anche se la strada non ha ancora imboccato la discesa. Nelle ultime settimane, il mondo scientifico ha preso atto che la direzione intrapresa con le terapie biologiche dirette nei confronti di alcune forme di amiloide è quella giusta, ma esistono ancora diverse questioni da mettere in chiaro.
Infatti, gli ultimi risultati su due nuove molecole quali Donanemab e Lecanemab indicano che entrambe non solo riducono in tempi ridotti l’accumulo dell’amiloide nel cervello del 60% e l’accumulo di altre proteine correlate alla neurodegenerazione come la Tau, ma che grazie a questo inducono un chiaro rallentamento della progressione clinica. Un rallentamento medio del 30% rispetto a chi non assume la terapia e a chi non mostra un effetto biologico.
In attesa di ulteriori conferme, è giusto sottolineare che questi farmaci appaiono efficaci anche in soggetti anziani già affetti da un decadimento cognitivo. Rispetto ad altri farmaci, lecanemab e donanemab mostrano un profilo di tollerabilità più soddisfacente per quanto riguarda gli eventi avversi, in particolare lo sviluppo di edema cerebrale e di microemorragie, sebbene occorre ricordare che queste sono in parte più frequenti in coloro che assumono antiaggreganti e anticoagulanti.
A conferma di questo, dobbiamo registrare i dati di un altro trattamento, Gantenerumab, l’unico che prevede la somministrazione sottocute. Infatti, a San Francisco sono stati presentati in anteprima i risultati di due studi clinici che hanno mostrato un effetto clinico meno significativo di quanto atteso in larga parte correlato ad un effetto biologico sull’amiloide limitato.
Non sono chiare le ragioni di questo esito, ma certo questo si aggiunge ai precedenti tentativi non arrivati a buon fine. Tra questi dobbiamo includere i dati relativi ad un antiaggregante della proteina TAU, la idrossi metitionina o blu di metilene, che non hanno mostrato un beneficio significativo.
Invece, sono stati oggetto di grande interesse i risultati preliminari di due studi lo SMARRT e il FINGER, che hanno in comune l’adozione di un approccio non farmacologico e mirato alla prevenzione in soggetti adulti e anziani. Infatti, entrambi gli studi hanno riportato un effetto clinico significativo sulla incidenza di demenza nella popolazione sottoposta a un trattamento mirato all’attività fisica, dieta equilibrata, controllo dei fattori di rischio cardiovascolare.
A conferma dell’importanza dei fattori di rischio, interessanti i dati a favore di farmaci ipoglicemizzanti in grado di contrastare l’insulino resistenza. Questi, così come una dieta chetogenica, potrebbero rappresentare una nuova frontiera per la prevenzione della Malattia di Alzheimer. Da qui, si fa sempre più forte la convinzione che è necessaria una diagnosi precoce e in questo contesto una nuova frontiera si è concretizzata. Ovvero la possibilità di individuare la malattia attraverso marcatori plasmatici. Numerose le evidenze a favore di questa possibilità tanto da ritenere che nei prossimi anni potremo davvero studiare l’effetto di terapie preventive in soggetti a rischio identificati attraverso un esame ematico.