Alto rischio osteoporosi con la terapia adiuvante per il cancro al seno

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Fratture vertebrali già nei primi 12 mesi di terapia. Gli esperti del GIOSEG: “Morfometria vertebrale ad inizio trattamento e a un anno”

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Milano, 10 marzo 2017 – E’ italiano lo studio che ha valutato l’impatto a lungo termine della terapia adiuvante con farmaci inibitori delle aromatasi (AI) per il controllo del Carcinoma mammario sulla salute delle ossa.

Sono oltre 250mila ogni anno le donne che entrano in terapia adiuvante con farmaci inibitori delle aromatasi di terza generazione come anastrozolo, exemestane e letrozolo per scongiurare il rischio di una recidiva del cancro al seno. Terapia indicata nelle donne in post menopausa in cui il carcinoma risultava ormono-sensibile, circa il 70% delle pazienti infatti è positiva ai recettori degli estrogeni (ER+) che viene seguita per un periodo di 5 anni circa come stabilito dalle Linee Guida, mentre per un particolare sottogruppo deve proseguire per 10 anni.

“La terapia adiuvante con inibitori delle aromatasi è quindi un pilastro fondamentale della terapia oncologica ma ha un pesante impatto sulla salute delle ossa. Le donne che seguono questa terapia perdono circa il 6% di massa ossea ogni anno, contro circa l’3% di quelle sane in età post- menopausale” spiega il prof. Andrea Giustina Direttore della Cattedra di Endocrinologia presso l’Università Vita e Salute San Raffaele di Milano.

La terapia con inibitori dell’aromatasi è associata ad un aumentato turnover osseo dovuto ad una profonda riduzione dei livelli circolanti di estrogeni che determina una upregulation del segnale di RANK (Receptor Activator of Nuclear factor, κB) ligando nell’osso.

Lo studio pubblicato sulla prestigiosa rivista Bone (2017, Jan 16;97:147-152) ha indagato la prevalenza di fratture vertebrali in queste pazienti prima e durante la terapia: le 263 donne italiane arruolate sono state sottoposte a DEXA per esaminare la densità minerale ossea, ma anche con la stessa metodica DEXA a morfometria vertebrale esame che permette di valutare l’altezza delle singole vertebre e quindi identificare eventuali fratture vertebrali esistenti. Inoltre sono stati raccolti campioni ematici per misurare i livelli ormonali e il calcio. Il campione di volontarie è stato diviso in due gruppi: uno di 94 soggetti trattato con inibitori e uno di 169 ‘naive’ ossia non trattato.

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Prof. Andrea Giustina

“Lo studio che abbiamo condotto si basa su un concetto nuovo: cercare le più subdole e spesso asintomatiche fratture vertebrali e non quelle cliniche come anca e femore che non possono sfuggire alle pazienti. Indagando la prevalenza delle fratture asintomatiche i numeri cambiano drammaticamente e arrivano al 35% nelle donne in trattamento adiuvante – sottolinea il prof. Alfredo Berruti, Ordinario di Oncologia Medica all’Università di Brescia e co-autore dello studio – Un aspetto molto importante che è oggi più considerato dagli oncologi medici, per i quali è importante tenere sotto controllo il rischio di recidive tumorali, certo, ma anche garantire una sopravvivenza di qualità senza rischi di invalidità e perdita di autonomia”.

La prevalenza di fratture vertebrali era del 31,2% nelle pazienti in terapia contro il 18,9% del gruppo non trattato (in cui i danni ossei erano associati ad una età più elevata e ad una minore densità ossea a livello del femore). Ma l’aspetto più interessante è stato che nelle donne trattate con gli inibitori delle aromatasi la prevalenza delle fratture era quasi sovrapponibile tra quelle con osteoporosi e quelle con massa ossea considerata nella norma. Questo dato sottolinea l’importanza della riduzione della qualità oltre che della quantità dell’osso con queste terapie.

“Dati che hanno una rilevante importanza clinica e che devono portare ad un cambiamento nella gestione della fragilità scheletrica – prosegue il prof. Giustina Presidente del GIOSEG e co-autore dell’articolo – infatti, l’esame della morfometria vertebrale emerge nella sua fondamentale importanza per il follow-up dello stato di salute ossea in queste pazienti. Infatti, se il ‘life time risk’ delle fratture vertebrali ammonta a circa il 40%, nelle donne che hanno avuto un cancro, il rischio di osteoporosi secondaria alla terapia si moltiplica. Eppure secondo alcune ricerche circa il 45% delle pazienti non riceve alcun trattamento di prevenzione delle fratture e il 60% delle donne sane con meno di 50 anni non ha mai effettuato alcun esame per verificare la salute dello scheletro. Basta fare due calcoli per comprendere l’importanza di proteggere le ossa di queste pazienti con un farmaco adeguato, al momento l’unico che si è mostrato capace non solo di aumentare la Bone Mineral Density ma di prevenire effettivamente le fratture delle vertebre è il denosumab, un anticorpo monoclonale completamente umanizzato indicato per il trattamento dell’osteoporosi post-menopausale”.

fonte: ufficio stampa

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