Concluso al Campus IFOM-IEO di Milano il Forum “La nuova era della nutrizione: dai meccanismi molecolari alla salute umana”, organizzato dalla Fondazione IBSA di Lugano, con la partecipazione di specialisti provenienti da cinque Paesi (Stati Uniti, Israele, Germania, Spagna e Italia). A confronto gli studi con una solida base scientifica, in un mondo – quello dell’alimentazione – afflitto da un’enorme quantità di fake news
Milano, 12 aprile 2018 – Esiste un modo (oltre alle buone regole del mangiar sano) per frenare l’invecchiamento e allungare la vita tramite l’alimentazione? Sì, hanno detto gli esperti internazionali riuniti oggi al Campus IFOM-IEO di Milano dalla Fondazione IBSA di Lugano, per il Forum intitolato “La nuova era della nutrizione: dai meccanismi molecolari alla salute umana”. Partner dell’incontro, l’Istituto Europeo di Oncologia, il Progetto SmartFood e la Food Bank in Oncology.
I ricercatori hanno presentato gli studi più avanzati in un settore – quello dell’alimentazione – che è afflitto, purtroppo, da una grande quantità di fake news. Quali sono questi studi? Quelli che ruotano intorno alla capacità, dimostrata da certi cibi, o da certe ‘tecniche’ (restrizione calorica controllata, alimentazione legata ai cicli circadiani, e altre), di frenare i geni dell’invecchiamento e di stimolare, nello stesso tempo, quelli della longevità, attraverso complessi meccanismi biochimici.
Ma non basta: altre ricerche hanno anche rivelato che specifiche ‘azioni’ sul modo di assumere il cibo (per esempio, alcuni schemi di digiuno eseguiti sotto controllo medico) possono attenuare i sintomi di malattie non facili da domare, come il diabete o patologie autoimmuni.
La dieta TRE (time-restricted eating). “Alcuni studi, per la maggior parte sugli animali, dimostrano che mangiare solo in determinati momenti della giornata, seguendo i ritmi naturali veglia-sonno, aiuta l’organismo in diversi modi: riducendo, per esempio, le infiammazioni croniche e la tendenza all’obesità, ma anche certi disturbi cardiaci”, ha spiegato Satchidananda Panda, professore presso il Salk Institute-Regulatory Biology Laboratory di La Jolla (California) e relatore al Forum.
Come mai i ritmi circadiani sono collegati anche alla ‘gestione’ del cibo? “L’alternanza veglia-sonno – ha risposto Panda – condiziona la produzione di ormoni importanti (insulina, glucagone, grelina, e altri) che sono coinvolti nel metabolismo”.
Quando è meglio mangiare, allora? “Le nostre ricerche e quelle di altri gruppi – ha concluso Panda – suggeriscono di non assumere il cibo 3 o 4 ore prima di andare a dormire e 1-2 ore dopo il risveglio. Questo significa avere una finestra di 10-12 ore al giorno entro cui mangiare (se consideriamo che una persona dorme in media 7 ore), escludendo le altre fasce. In sigla, questo regime alimentare viene chiamato TRE (time-restricted eating)”.
Il digiuno intermittente. Anche digiunare in modo intermittente, cioè alternando giorni di digiuno assoluto ad altri in cui ci si alimenta in modo normale, può aiutare l’organismo a placare i sintomi delle malattie infiammatorie, ma anche di altre patologie, purché l’astensione dal cibo venga programmata e seguita da uno staff medico esperto.
A questa conclusione è arrivato Andreas Michalsen, professore di medicina clinica complementare al Charité University Medical Center di Berlino, e relatore al Forum.
“Nel nostro ospedale – ha detto – abbiamo seguito più di 20.000 pazienti, finora, che si sono sottoposti a diverse forme di digiuno sotto controllo medico. Ebbene, i risultati sono stati ottimi, per quanto riguarda il diabete, l’ipertensione, l’emicrania, la fibromialgia, l’artrite reumatoide”.
Ma quanti giorni bisogna rimanere lontani dal cibo? “Esistono diversi schemi di digiuno intermittente – ha risposto Michalsen. Un giorno di digiuno alla settimana fornisce, probabilmente, risultati modesti, a breve termine. Altri schemi più efficaci, invece, prevedono, ad esempio, 5 giorni di digiuno nell’arco di due settimane, o 16 nell’arco di 8 settimane, sempre sotto stretto controllo medico”.
Algoritmi per ‘misurare’ i batteri dell’intestino. Quanto ci condizionano i batteri e gli altri microrganismi che abbiamo nell’intestino (e che pesano, nel loro complesso, più di un chilo, formando quello che gli esperti chiamano microbioma)? Numerosi studi dimostrano che questa ‘presenza’ può influire molto, positivamente o negativamente, nell’insorgenza di malattie come il diabete, l’obesità, ma anche disturbi circolatori.
Al Forum sulla nutrizione, il ricercatore Eran Segal, professore presso il Dipartimento di Computer Science e Matematica applicata al Weizmann Institute of Science (Rehovot, Israele), ha portato i risultati di un recente studio, condotto dalla sua équipe, sul ruolo del microbioma nel rapido recupero di peso che spesso affligge le persone obese dopo una dieta.
“Abbiamo scoperto che, in alcuni casi, nell’intestino delle persone obese sono presenti batteri in grado di rendere più difficile il dimagrimento – spiega Segal – Come agiscono? Se il paziente si sottopone a una dieta, quei batteri ‘ricordano’ il livello di peso precedente e si danno da fare perché venga ripristinato…”.
Segal è un esperto di informatica (si è laureato in computer science all’Università di Tel Aviv), ma ha anche un dottorato di ricerca in genetica, conseguito alla prestigiosa Università di Stanford (Stati Uniti). Grazie a questo mix di conoscenze, applica i sistemi di calcolo più avanzati (una sorta di “matematica intestinale”) per studiare la composizione del microbioma e gli effetti sull’organismo.
“Abbiamo scoperto, per esempio, che la risposta individuale al glucosio è assolutamente diversa da un organismo all’altro – continua Segal – e dipende anche dalla composizione del microbioma. Così abbiamo sviluppato un algoritmo in grado di prevedere la risposta glicemica di ogni singola persona, sulla base dei dati clinici e della composizione dei batteri presenti nell’intestino. Questo è particolarmente importante per chi è a rischio di diabete”.
La nutrigenomica (nuove ipotesi sulle piante che contengono molecole anti-invecchiamento, e che arrivano a offrire caffeina agli insetti impollinatori, come ricompensa). Secondo un’ipotesi (affascinante), le piante hanno prodotto, nel corso dell’Evoluzione, una serie di sostanze in grado di allungare la vita agli animali con cui venivano in contatto, per ‘aiutarli’ a evolversi insieme a loro (nell’ambito di quella che gli esperti chiamano co-evoluzione: una complessa serie di equilibri e di condizionamenti reciproci, nel corso di milioni di anni di selezione naturale).
Di tutto questo ora possiamo approfittare anche noi, che ritroviamo quelle preziose sostanze allunga-vita nei vegetali. Ma alcune piante sono andate anche oltre, producendo sostanze come la caffeina, per fare in modo che gli insetti impollinatori venissero maggiormente attirati (in un certo senso, hanno offerto il caffè a questi insetti…). Oppure inserendo nel polline molecole anti-stress per le api, come l’acido cumarico.
È un’ipotesi, dicevamo. “In realtà – ha spiegato Marco Giorgio, ricercatore senior presso il Dipartimento di Oncologia Sperimentale dell’Istituto Europeo di Oncologia a Milano e relatore al Forum sulla nutrizione – è difficile capire empiricamente se le sostanze che prevengono l’invecchiamento e aumentano la longevità negli animali siano presenti per caso negli alimenti vegetali, o siano state incentivate dalle piante stesse per modulare il mutualismo piante-animali”.
Comunque sia, alcune di queste sostanze allunga-vita sono state identificate dai ricercatori dello IEO, nell’ambito del Progetto SmartFood. “Finora ne abbiamo trovate e descritte sette – dice Lucilla Titta, coordinatrice del Progetto e organizzatrice scientifica del Forum. Sono queste: quercetina, resveratrolo, curcumina, antocianine, epigallocatechingallato, fisetina, capsaicina, presenti in diversi tipi di vegetali. Agiscono modulando direttamente, e positivamente, l’espressione del Dna delle cellule”.