Roma, 12 giugno 2020 – Ricerca scientifica nella bufera nella fase 2 della pandemia. Il 22 maggio, uno studio pubblicato su The Lancet mette in dubbio l’efficacia dell’idrossiclorochina contro il Covid-19, evidenziandone gli effetti collaterali a danno del cuore. Il 25 maggio, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), in seguito a questo articolo, sospende gli studi sull’idrossiclorochina.
Il 29 maggio, 120 ricercatori da tutto il mondo (incluse le Università di Harvard e Oxford) scrivono una lettera all’editore di The Lancet, mettendo in dubbio la validità della pubblicazione. Il 2 giugno, la prestigiosa rivista pubblica allora una nota (“expression of concern”), garantendo un immediato controllo indipendente sulla provenienza e sulla validità dei dati.
Dopo la nota, arriva il ritiro dello studio e tre dei quattro autori dell’articolo ritrattano in toto il loro lavoro. Il 3 giugno, l’OMS fa marcia indietro e riprende gli studi sull’idrossiclorochina. Una vicenda che rischia di incrinare la fiducia nella ricerca scientifica.
Ne parliamo con il prof. Francesco Perrone, membro del Direttivo nazionale AIOM (Associazione Italiana di Oncologia Medica) e Direttore Struttura Complessa Sperimentazioni Cliniche dell’Istituto Nazionale Tumori Pascale di Napoli.
Professor Perrone, perché una rivista con quasi due secoli di storia come The Lancet è caduta in un errore così grossolano?
Non dobbiamo perdere di vista il buon senso. Il Covid-19 ha costretto a un’accelerazione non solo dell’attività clinica ma anche degli studi. Abbiamo assistito a una strategia da parte delle più importanti riviste scientifiche, che ha condotto gli editori a essere quanto più tempestivi nel diffondere dati e conoscenze utili alla gestione della pandemia. L’estrema velocità implica maggiori probabilità di errore nella valutazione dell’attendibilità dei lavori scientifici. È una conseguenza inevitabile.
Va considerato che il sistema di pubblicazione di dati scientifici include diversi attori: gli uffici editoriali delle riviste, gli autori che scrivono i lavori che vengono sottoposti alle riviste, i revisori indipendenti e la comunità scientifica che recepisce i lavori pubblicati ed è in grado di reagire.
Questi quattro pilastri reggono il sistema. In presenza di un errore, vengono messe in atto le strategie di contenimento, perché ognuno degli attori coinvolti può essere disonesto.
La frode, nel caso dello studio sull’idrossiclorochina, è stata compiuta dagli autori che hanno trasmesso dati sulla cui attendibilità non vi erano sufficienti garanzie. Però non ritengo che si possa parlare di una sconfitta della peer review, perché i revisori indipendenti, considerando anche la pressione a cui sono stati sottoposti per i tempi molto brevi dettati dalla pandemia, non possono essere considerati “investigatori privati”.
I revisori leggono quanto è stato sottoposto alla rivista, valutano il merito scientifico e, spesso, individuano le lacune dei lavori presentati, mettendo in guardia l’editor. Ma i revisori non controllano il curriculum degli autori, che nel caso in questione sembra fosse discutibile.
Ritiene che questo episodio possa mettere in discussione la laicità e l’integrità dell’intero sistema delle pubblicazioni scientifiche?
Esiste per fortuna il quarto pilastro del sistema, rappresentato dalla comunità scientifica che legge un lavoro pubblicato. La comunità è molto più ampia di 2 o 3 revisori che valutano il paper. La comunità è in grado di reagire: è il valore positivo della globalizzazione degli strumenti di condivisione e circolazione rapida degli articoli. Se uno studio presenta lacune, il controllo della comunità scientifica, costituita da migliaia di lettori, fa emergere gli errori.
Il sistema ha in sé gli anticorpi per reagire. Per questo non credo assolutamente che sia in discussione l’integrità del sistema delle pubblicazioni scientifiche. Il sistema, in questa vicenda, ha reagito in maniera tempestiva. Ha subito un duro attacco, rappresentato dalla sottomissione di articoli fraudolenti perché non basati su dati credibili.
Peraltro tre dei quattro autori si sono dissociati e hanno ritirato la firma dall’articolo, ammettendo così di essere stati complici di una frode scientifica. Però il sistema ha retto, perché la frode ha superato la prima linea degli editori e dei revisori (che hanno sicuramente abbassato l’asticella delle garanzie per i tempi stretti dovuti alla pandemia) ma non il vaglio dell’intera comunità scientifica, che in pochi giorni ha individuato l’errore.
Ricordiamo che, in passato, sono trascorsi anche 10 anni perché venisse ritirato un articolo che sosteneva il legame fra autismo e vaccini. Il sistema ha retto grazie all’ultimo baluardo rappresentato dal vaglio della comunità scientifica, che costituisce una parte importante del sistema di diffusione delle conoscenze scientifiche. Purtroppo persiste la convinzione errata del dono dell’infallibilità, che interessa non solo l’editoria scientifica ma in assoluto l’intera medicina.
La reazione stupita nei confronti di questa vicenda – “Non possiamo più fidarci di Lancet” – è analoga a quella a cui assistiamo ogni volta che i media raccontano un caso di malasanità. C’è un aspetto su cui vorrei invece porre l’attenzione: gli operatori sanitari in tutto il mondo sono i più esposti al rischio di contagio da Covid. Ed è preoccupante che alcuni medici, cioè gli autori della frode, abbiano sfruttato il momento particolare e delicato per cercare di ingannare la comunità scientifica. È questo il vero ‘buco nero’ della vicenda. Le Istituzioni scientifiche devono tenere alta la guardia.
Lo studio incriminato ha utilizzato una metodologia di raccolta dei dati molto discutibile, basata esclusivamente sull’intelligenza artificiale. Quali sono le prospettive future dell’intelligenza artificiale negli studi clinici anche sui tumori?
Tutti gli sviluppi tecnologici possono essere utili. In questa vicenda fraudolenta, il problema non sta nell’intelligenza artificiale, ma nel fatto che i dati sono stati generati in maniera scorretta. Il progresso tecnologico non si misura in termini di quantità di dati, ma di aiuto e supporto alla comunità per raggiungere obiettivi di salute pubblica.
Credo quindi che l’intelligenza artificiale possa svolgere un ruolo importante in futuro anche negli studi sui tumori.
Spesso gli studi sui tumori indicano benefici in termini di sopravvivenza di pochi mesi. Quando un farmaco anticancro va considerato realmente innovativo?
Un farmaco è innovativo se risponde a un bisogno di salute elevato, con benefici di dimensioni clinicamente e umanamente rilevanti e in base a prove di efficacia di alta qualità. Questa definizione di innovatività è in linea con quella delineata dall’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA). Anche in questo caso, dobbiamo farci guidare dal buon senso.
Dopo tre mesi di pandemia, credo che per noi oncologi sia giunto il momento di riflettere sul valore reale di alcuni studi, che hanno segnato e continuano a caratterizzare la pratica clinica. Non dovremmo più accontentarci di vantaggi di pochi mesi, spesso in termini di tempo alla progressione e senza effetti tangibili sulla sopravvivenza globale. Vi sono farmaci anticancro che apportano minimi benefici, perché privi di forza rilevante.
Il Covid inevitabilmente modifica la percezione del valore di alcuni studi. In altre parole, non possiamo più ritenerci soddisfatti per aver prolungato solo di due o tre mesi la sopravvivenza di pazienti over 70 con un tumore, alla luce di come la popolazione anziana è stata duramente colpita dal Covid.
In termini di priorità è probabilmente più importante lavorare per migliorare la globale gestione degli anziani da parte del SSN, in tutte le regioni. Va, quindi, aumentato il senso critico nei confronti di risultati che, prima della pandemia, ci pareva costituissero un vantaggio clinico molte importante. La traumatica esperienza degli ultimi mesi ci costringerà a rivalutare alcuni dati, troppo enfatizzati in passato.
Quali sono gli strumenti da adottare per leggere correttamente uno studio clinico e in che modo è possibile tutelare sia i pazienti più fragili come quelli colpiti da tumori che i giornalisti da interpretazioni fuorvianti?
Se vogliamo trarre una lezione dall’‘affaire’ clorochina, resta valido un principio cardine: la credibilità delle fonti è il primo elemento da seguire. Va però aggiunto un correttivo. Se si ha garanzia che la fonte è attendibile, bisogna inserire un ulteriore elemento di scetticismo e relatività, ricordandosi sempre che la medicina non è una scienza esatta.
La ricerca clinica, in particolare, è un percorso che progredisce con margini di probabilità e di incertezza. Inoltre i giornalisti e, più in generale, tutti coloro che si occupano di comunicazione medico-scientifica, devono considerare che l’attendibilità di una notizia dipende non solo dalla fonte (cioè dalla rivista e dagli autori) e dai revisori ma anche dalla comunità scientifica, che ha il compito di metabolizzare lo studio. È un processo che richiede tempo.
Abbiamo assistito a una delle conseguenze del Covid: le riviste hanno deciso di abbassare il livello di guardia, per accelerare e anticipare la presentazione degli studi. La pubblicazione di una sperimentazione ‘sbagliata’ era inevitabile in queste condizioni. Su Jama, abbiamo pubblicato recentemente un articolo firmato con Massimo Di Maio, segretario nazionale AIOM, in cui si evidenzia come, nei congressi, i risultati delle sperimentazioni siano talvolta presentati con una lettura eccessivamente ottimistica, che non rispecchia i reali benefici clinici. Se si accelera troppo, si finisce con il fare comunicazione sulla base dell’entusiasmo, spesso fuori misura. Serve più equilibrio.
La decisione iniziale dell’OMS di sospendere gli studi sull’idrossiclorochina, dopo l’articolo di The Lancet, ha condizionato la scelta indipendente dell’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA), che ha ritirato la determina che permetteva l’uso domiciliare di idrossiclorochina, limitandone la somministrazione solo negli studi in corso. Ritiene che i medici debbano continuare a prescriverla off label?
Uno studio pubblicato pochi giorni fa evidenzia che l’idrossiclorochina non è efficace con finalità di prevenzione. Voglio ancora sottolineare la reattività in tempi rapidi di Istituzioni come AIFA e OMS. Leggo in senso positivo la capacità di assumere subito decisioni.
Purtroppo a monte c’è stata una frode, a cui è seguita la giusta reazione delle Istituzioni per tutelare i pazienti. Quando la frode è emersa, c’è stato il passo indietro. Il principio da seguire è sempre la protezione dei pazienti. Come cittadino, mi sento difeso e garantito da un sistema che è stato capace di rispondere in pochi giorni. Inoltre, da quando è iniziata la pandemia, AIFA si è distinta per aver reso possibili studi in tempi molto rapidi, mai visti prima.
Quindi possiamo fidarci ancora delle riviste scientifiche?
Certamente, dobbiamo fidarci solo delle riviste scientifiche e mantenere alto il senso critico, perché il sistema ha margini di fallibilità, messi in evidenza da persone che non agiscono correttamente all’interno della comunità scientifica. Va mantenuta alta la guardia nelle Istituzioni scientifiche, perché i frodatori storicamente vengono proprio da queste realtà. Il primo livello di controllo deve essere esercitato da chi amministra le Istituzioni, così è possibile garantire la liceità del comportamento dei ricercatori.
(fonte: AIOM News)