Martello e bisturi: i due volti di una società ferita

Nicoletta Cocco

La violenza, in qualunque forma si manifesti, rappresenta sempre una sconfitta per la civiltà. Aggredire chi dedica la propria vita alla cura e alla salvaguardia degli altri è un gesto che merita non solo una ferma condanna, ma anche una profonda riflessione collettiva.

Ci sono gesti che parlano più delle parole. E poi ci sono i colpi. Quelli violenti, stupidi, che sembrano voler sigillare un grido di esasperazione. Il martello che ha colpito un autista di ambulanza a Roma non ha solo ferito un uomo; ha incrinato, ancora una volta, quel delicato patto di fiducia che tiene insieme una comunità. Un martello, simbolo di costruzione, usato per distruggere. Forse il paradosso più crudo di questa storia.

Ma ogni colpo ha una mano, e ogni mano una storia. Siamo una società stanca, sfibrata, che sente di non poter più contare su nulla: non sui servizi, non sui tempi di risposta, spesso neppure su uno sguardo.

Non è la prima volta che assistiamo a episodi di violenza contro il personale sanitario, ma ogni volta è come se quella scena colpisse anche noi, dritti al cuore. Perché colpire un medico o un infermiere significa colpire l’idea stessa di una società che si prende cura dei suoi membri più fragili. Significa voltare le spalle alla comunità e sprofondare nell’individualismo esasperato di chi crede che i propri bisogni debbano prevalere su ogni regola, su ogni altro essere umano.

Ma c’è una verità, più sottile e dolorosa, che non possiamo ignorare: il martello era tenuto da una mano esasperata, forse abituata a trovare porte chiuse e orecchie sorde. Non per giustificare – mai – il gesto di violenza, ma per capire quanto profonda sia la frattura tra chi cerca aiuto e chi è chiamato a offrirlo. Perché in quel Pronto Soccorso, al di là delle attese infinite, delle risposte burocratiche e dei visi tesi dalla stanchezza, non si va mai per una gita. Ci si va spinti da una paura primitiva, quella di perdere qualcosa o qualcuno, e si spera di trovare non solo una cura, ma anche uno sguardo umano, una parola che rassicuri.

Il soccorritore non è un nemico, ma nell’immaginario distorto della disperazione, diventa il volto di un sistema che non funziona. E allora forse è qui che dobbiamo iniziare a costruire, con la stessa pazienza che si usa per riparare un vaso rotto. Da un lato, pretendere istituzioni più forti e presenti, che proteggano gli operatori sanitari non con slogan o leggi tardive, ma con misure vere e tangibili. Dall’altro, chiedere a chi indossa il camice di ricordare che la medicina non è solo scienza, ma anche arte dell’ascolto. Non possiamo chiedere agli operatori sanitari di essere solo martiri di un sistema al collasso; dobbiamo anche pretendere che chi indossa un camice non dimentichi mai che l’umanità è la prima cura. Perché, in fondo, quando si entra in un ospedale non si cerca solo un rimedio: si cerca qualcuno che dica, senza parole, “Io sono qui. Non sei solo”.

Il martello e il bisturi, due strumenti che raccontano chi siamo e chi potremmo essere. Sta a noi scegliere se vogliamo continuare a colpire o iniziare a costruire.

Nicoletta Cocco

Direttore responsabile insalutenews.it

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