Le linee guida internazionali raccomandano di svolgere le analisi genetiche all’inizio del percorso di cura
Roma, 15 maggio 2024 – Terapie mirate contro la proteina IDH migliorano la sopravvivenza di tumori rari e difficili da trattare. La mutazione del gene IDH1, scoperta recentemente, è riscontrabile nell’80% dei gliomi di basso grado, un tipo di cancro del cervello, nel 20% dei colangiocarcinomi e nel 10% dei casi di leucemia mieloide acuta. È però necessario che il test molecolare per individuare la mutazione genetica sia svolto fin dal momento della diagnosi.
L’appello per sensibilizzare clinici e Istituzioni viene dalla Fondazione per la Medicina Personalizzata (FMP), oggi a Roma, nel media tutorial sulla frontiera più avanzata dell’oncologia di precisione focalizzato sul ruolo oncogenico delle mutazioni IDH.
“Nel modello istologico l’indicazione terapeutica si basava sulla sede del tumore, in quello mutazionale deriva dalla profilazione genomica – spiega Paolo Marchetti, Presidente della Fondazione per la Medicina Personalizzata – Si afferma un nuovo paradigma terapeutico, nel quale la firma genomica supera il valore della sola caratterizzazione istologica. Il punto chiave del nuovo processo è rappresentato dalla profilazione genomica, cioè dall’individuazione delle alterazioni molecolari che giocano un ruolo fondamentale nello sviluppo della malattia: da qui deriva la scelta del farmaco e l’indicazione terapeutica, indipendentemente dalla sede del tumore, dall’età e dal sesso del paziente. Ad esempio, i geni IDH sono frequentemente mutati in neoplasie rare come i gliomi a basso grado, il colangiocarcinoma e la leucemia mieloide acuta e possono costituire i bersagli di terapie mirate che, inattivando queste proteine mutate, bloccano anche la proliferazione delle cellule malate”.
“I gliomi sono una forma di tumore del cervello e fanno registrare ogni anno, in Italia, circa 3.000 nuovi casi – afferma Andrea Pace, Responsabile della Neuroncologia dell’IRCCS Istituto Tumori Regina Elena di Roma – Il 20% è costituito dai gliomi di grado 2, cioè di basso grado, che sono più frequenti nei giovani fra i 20 e i 40 anni. I sintomi all’esordio sono costituiti di solito da crisi epilettiche, spesso resistenti ai trattamenti, perché le cellule malate tendono a infiltrare il tessuto nervoso sano”.
“Queste neoplasie cerebrali hanno una crescita lenta ma, con il passare degli anni, possono diventare di alto grado e, quindi, più aggressive – prosegue Pace – La chirurgia con massima asportazione possibile del tumore è il trattamento di scelta, a cui segue, anche per anni, l’osservazione della malattia, per poi passare alla chemioterapia e radioterapia se il tumore diventa più aggressivo. Questi pazienti possono convivere con la malattia anche per decenni, continuando a lavorare, ad essere attivi nella vita e ad avere figli”.
“Per 20 anni, le terapie successive alla chirurgia sono rimaste identiche, costituite cioè da chemioterapia e radioterapia – evidenzia il prof. Pace – Oggi il cambiamento è radicale, perché anche la neuroncologia può beneficiare della medicina di precisione. L’analisi molecolare, infatti, ha consentito di evidenziare la presenza di mutazioni genetiche anche nei tumori cerebrali. In particolare, le mutazioni di IDH1 sono presenti nell’80% dei gliomi di grado 2, quelle di IDH2 in circa il 5%. Quando la proteina IDH1 è mutata, avvia il meccanismo di crescita tumorale. Ed è stato dimostrato che può costituire il bersaglio di terapie mirate”.
“Lo studio INDIGO, pubblicato sul New England Journal of Medicine, ha convolto circa 330 pazienti con gliomi di grado 2 non aggressivi, che si erano sottoposti all’intervento chirurgico ma non a chemioterapia e radioterapia. Vorasidenib, inibitore di IDH, rispetto alla sola osservazione ha più che raddoppiato la sopravvivenza libera da progressione: 27,7 mesi rispetto a 11,1. È fondamentale, come stabilito dalla classificazione dell’OMS, che in ogni paziente, al momento della diagnosi, sia eseguita l’analisi molecolare”, chiosa il prof. Pace.
Le mutazioni di IDH1 sono presenti anche in circa il 20% dei casi di colangiocarcinoma (nella forma intraepatica). “È un tipo di tumore primitivo del fegato, che fa registrare ogni anno circa 5.400 nuove diagnosi in Italia – afferma Andrea Casadei Gardini, Oncologo dell’Unità Operativa di Oncologia Medica dell’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano e Professore Associato di Oncologia all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano – Si distingue in base alla sede d’insorgenza in intraepatico, se si sviluppa all’interno del fegato, ed extraepatico e della colecisti, se nasce dalle vie biliari extraepatiche. Ad oggi, non vi sono metodi per la diagnosi precoce o test di screening di routine, in grado di identificare la malattia in fase iniziale, quando è ancora possibile l’intervento chirurgico. Per questo, il 70% dei pazienti presenta alla diagnosi una malattia già in fase avanzata”.
La sopravvivenza a 5 anni è ancora bassa, pari al 17% negli uomini e al 15% nelle donne. “I recenti progressi nel campo della profilazione molecolare e nel sequenziamento genico hanno evidenziato, anche in questa neoplasia, alterazioni genetiche, che possono rappresentare nuovi target terapeutici – sottolinea il prof. Casadei Gardini – Il 45% dei pazienti con colangiocarcinoma presenta un’alterazione genetica potenzialmente ‘actionable’, cioè bersaglio di terapie mirate. Le più frequenti nelle forme intraepatiche sono le mutazioni di IDH1, presenti in circa il 20% dei casi, e le traslocazioni di FGFR2, rilevabili nel 10%. I test dovrebbero essere eseguiti in tutti i pazienti fin dall’inizio del percorso di cura, quindi anche nei pazienti candidati alla chirurgia, per l’elevata percentuale di recidive successive all’intervento e perché il fattore tempo svolge un ruolo cruciale nella gestione della patologia”.
Studi clinici hanno dimostrato l’efficacia di terapie mirate in presenza di alterazioni genetiche. In particolare, ivosidenib è il primo inibitore mirato di IDH1 approvato in Europa per i pazienti con colangiocarcinoma localmente avanzato o metastatico con una mutazione (IDH1), precedentemente trattati con almeno una linea di terapia sistemica.
“Nello studio ClarIDHy pubblicato su JAMA Oncology – continua il prof. Casadei Gardini -, la nuova molecola ha evidenziato una riduzione del rischio di progressione di malattia del 63%. I benefici sono stati confermati anche in uno studio ‘real world’, che riproduce la pratica clinica quotidiana”.
La profilazione molecolare è una parte fondamentale della diagnosi anche nella leucemia mieloide acuta, un tumore del sangue che colpisce ogni anno in Italia circa 2.100 persone. “È una malattia ematologica tra le più insidiose e difficili da trattare, che richiede cure tempestive – spiega Maria Teresa Voso, Professore Ordinario di Ematologia all’Università Tor Vergata e Responsabile del laboratorio di Diagnostica Avanzata Oncoematologica del Policlinico Tor Vergata di Roma – Anemia, stanchezza, pallore, sanguinamenti ed ematomi, legati alla carenza di piastrine, sono i principali sintomi. La sopravvivenza a 5 anni dalla diagnosi oggi è di circa il 30%”.
Le percentuali sono inferiori per coloro che non sono idonei alla chemioterapia intensiva. “La maggioranza dei casi si presenta in età avanzata e l’età media alla diagnosi è di 69 anni – continua la prof.ssa Voso – I pazienti anziani o fragili non sono in grado di tollerare la chemioterapia intensiva standard, seguita dal trapianto allogenico di cellule staminali, se indicato. I progressi nel campo dell’analisi molecolare e del sequenziamento del DNA hanno permesso di identificare mutazioni genetiche ricorrenti, non rilevabili con i test citogenetici standard. Le Linee Guida internazionali raccomandano l’esecuzione dei test genetici al momento della diagnosi in tutti i pazienti. Fino al 50% presenta almeno una mutazione potenzialmente ‘actionable’ per una terapia mirata. Le mutazioni a carico dei geni IDH sono tra le più comuni: quelle di IDH1 sono presenti in circa il 10% dei casi, quelle di IDH2 nel 10-15%”.
La Commissione Europea ha approvato ivosidenib in associazione con un agente ipometilante, azacitidina, per il trattamento di pazienti adulti con leucemia mieloide acuta di nuova diagnosi con mutazione di IDH1, che non sono idonei a ricevere la chemioterapia di induzione standard.
“Nello studio AGILE, pubblicato sul New England Journal of Medicine – spiega la prof.ssa Voso – la terapia mirata con ivosidenib in combinazione con azacitidina in prima linea ha triplicato la sopravvivenza globale mediana rispetto a placebo e azacitidina, 2 anni contro 7,9 mesi”.
“Oggi vi è una crescente disponibilità di test di profilazione genomica estesa, con pannelli che possono esaminare anche 500 geni con un singolo esame – conclude il prof. Marchetti – L’analisi e l’interpretazione dei risultati della profilazione genomica, nonché l’individuazione di potenziali trattamenti mirati, richiedono competenze multidisciplinari. È quindi fondamentale istituire i Molecular Tumor Board, nei quali sono coinvolte competenze provenienti da diverse aree, quali l’oncoematologia, l’anatomia patologica, la genetica medica, la biologia molecolare, la farmacologia clinica, la farmacia ospedaliera e altre figure professionali”.