Roma, 12 ottobre 2022 – “Centinaia di infermieri, negli ultimi mesi, nel nostro Paese, hanno deciso di abbandonare la professione con dimissioni irrevocabili. I numeri parlano chiaro e sono confortati da numerosi e autorevoli studi, che confermano addirittura come a livello europeo il trend negativo è destinato pericolosamente a peggiorare. Il 34,4% dei professionisti prevede addirittura di lasciare il posto di lavoro ad un anno dall’assunzione e il 43,8%, nella migliore delle ipotesi, invia una richiesta di trasferimento, chiedendo di lavorare in reparti dove lo stress traumatico possa avere un impatto meno invasivo sulla propria vita personale.
Ed è per questo che, guardando all’Italia, si registra, ad esempio, una vera e propria fuga di operatori sanitari dai pronto soccorso, sempre più sguarniti. E’ sempre per questo che i bandi concorsuali vanno deserti e la professione, alla base, agli occhi della collettività, di chi deve scegliere di intraprendere questo percorso, perde sempre più appeal.
Chiediamoci, allora se è davvero soltanto responsabilità di una valorizzazione economica che tarda ad arrivare, con una media di stipendio, comprensiva di premialità e straordinari, indicata dalla Ragioneria dello Stato in poco più di 1700 euro mensili, che deve gioco forza risuonare, alla luce dell’inflazione record e del mutato costo della vita, in un pericoloso campanello di allarme. Certamente non è solo una questione di soldi!
A livello europeo il fenomeno, secondo gli esperti, ha un nome ben preciso, e si chiama “Great Resignation”: investe diversi settori del mondo lavorativo, ma più di tutti a pagare dazio è la sanità”. Così Antonio De Palma, Presidente Nazionale del Nursing Up.
“L’Italia rimane agli ultimi posti del Vecchio Continente per la media retribuzioni, lo sappiamo, nonostante i piccoli passi avanti raggiunti con l’ultimo contratto: la conseguenza peggiore di questo fenomeno, rapportato alla realtà sanitaria del nostro Paese, è la carenza di personale.
80mila infermieri mancano all’appello da Nord a Sud, non smetteremo mai di denunciarlo, e se da un lato potrebbe farci piacere che le nostre denunce siano corroborate da questi studi, dall’altro non possiamo certo fare salti di gioia, alla luce di una situazione che nel nostro caso viaggia pericolosamente, come un’auto in corsa senza freni, verso lo schianto.
In particolare a dare peso a quanto il nostro sindacato denuncia da mesi, invocando, da parte di Governo e Regioni, un massiccio piano di assunzioni per porre un freno alla voragine esistente, sono gli studi che emergono da un’analisi degli esperti dell’Accademia Sahlgrenska, presso l’Università di Göteborg.
Fa sensazione, non c’è dubbio, che report così dettagliati, sulla condizione psicologica degli infermieri, e non solo economica, arrivino da un Paese dove la qualità della vita è altissima e dove un giovane infermiere neo assunto guadagna 2.100 euro al mese. Lo studio parla chiaro e rivela che il personale sanitario, in molti paesi europei, ma non ci pare certo il caso della Svezia, vive una situazione di disagio psicologico di non poco conto.
Questo fenomeno di “palese insoddisfazione” , come risulta anche dalle nostre numerose inchieste dedicate alla categoria, è visibile più che mai nella realtà italiana, sfociando appunto in fughe all’estero, alla luce di stipendi ben più gratificanti e prospettive di carriera ben diverse, e ancora richieste di trasferimenti, abbandonando reparti come i pronto soccorsi, dove, spesso, un solo infermiere, lo abbiamo denunciato più volte, in aree triage, si ritrova a occuparsi anche di dieci pazienti.
Nella migliore delle ipotesi, chi non abbandona per sempre la professione, chiede di lavorare nella sanità privata, oppure decide di aprire partita iva, per evitare di sottostare a regole massacranti, che spesso compromettono il proprio equilibrio personale, i propri rapporti con la famiglia. Qualcuno dimentica facilmente che dietro un camice di un infermiere ci sono uomini e donne, con famiglie, affetti, esigenze personali!
Non può passare inosservato nemmeno il fatto che l’Italia è tra i Paesi Europei con il più alto fenomeno di violenze, fisiche e psicologiche, subite dal personale sanitario quasi ogni giorno, da Nord a Sud, nelle corsie degli ospedali, con le nostre infermiere ad essere, più di tutti, le vittime sacrificali di una spirale di rabbia e aggressività che le trasforma in capro espiatorio da parte di cittadini esasperati.
In questo panorama, tuttavia, ci sono altri aspetti che vanno considerati. O meglio, a prescindere dalle oggettive carenze numeriche e dalle lacune economiche, è importante valutare anche quanto e come chi lavora in sanità si senta apprezzato e sia motivato a proseguire nella sua opera.
Chiediamoci, una volta per tutte, la politica lo faccia, se l’infermiere italiano si sente gratificato e soddisfatto in questo sistema sanitario. Su questo fronte, in una logica di equilibrio che probabilmente deve veder riconosciuto tangibilmente (e non solo sotto il versante economico), il valore della professionalità, la variabile che può fare la differenza, e questo lo dicono gli esperti, è il manager sanitario.
Lo studio afferma che, lo citiamo testualmente, “la riconoscenza della valenza del lavoro degli infermieri sarebbe la chiave per far permanere l’infermiere nella sua struttura, perché viene riconosciuto come fondamentale proprio da chi organizza il suo lavoro. Il tutto, oltre a rivelarsi di maggior soddisfazione per l’operatore, diventa anche un passaggio per aumentare l’efficacia dell’intervento sanitario e quindi può avere impatto sul paziente. Occorre quindi che chi svolge compiti così importanti nella routine dell’assistenza veda riconosciuto appieno il suo valore”.
A sancire questa realtà è sempre l’analisi svolta dagli esperti dell’Accademia Sahlgrenska, presso l’Università di Göteborg, diventata addirittura un libro e poi riportata nelle sue logiche in due pubblicazioni apparse su Scandinavian Journal of Psychology e su Journal of Health Organization and Management.
Stando ai risultati del progetto che ha guidato la ricerca, coinvolgendo tanto dirigenti sanitari quanto infermieri, quando questi ultimi si rendono conto che l’organizzazione in cui operano si occupa di loro e soprattutto ne apprezza l’attività, tendono a subire meno lo stress ed il burnout.
Ma l’effetto più significativo sta nel fatto che sono più portati a operare in squadra, a percepire il loro lavoro come di maggior valore, a sopportare lo stress, e in ultima istanza, a ridurre il rischio di trasferimenti con ripercussioni sull’organizzazione. In questo, chi è responsabile del lavoro degli altri, dai vertici dell’azienda al management in tutte le sue articolazioni professionali, con la sua presenza e disponibilità diventa l’elemento chiave.
I dipendenti, in questo caso gli infermieri, hanno si bisogno di gratificazioni economiche, ma hanno anche la coeva necessità di avere la percezione di quanto l’organizzazione apprezzi il loro lavoro e tuteli il loro benessere. Se queste percezioni sono positive, si generano meno attriti di carattere interiore, chi lavora è più soddisfatto e riesce a prendersi cura meglio dell’assistito.
In parole povere, ma lo abbiamo ripetuto più volte nelle nostre campagne stampa – prosegue De Palma – un infermiere che si sente apprezzato nelle sue indubbie capacità, un infermiere soddisfatto, un infermiere giustamente al centro del progetto sanità, sarà un infermiere capace di prendersi cura in modo ottimale dei malati. Tutto questo è fuori dubbio, ma ahimè, in Italia, sembriamo ancora ben lontani dall’averlo compreso”, chiosa De Palma.