Lo studio condotto dall’IDI pubblicato sul Journal of the European Academy of Dermatology and Venereology. Lo spessore della malattia lo scorso anno è stato di 1,4 mm rispetto a 0,88 mm del periodo pre-pandemico. Prof. Paolo Marchetti, Direttore Scientifico dell’Istituto Dermopatico dell’Immacolata di Roma: “La maggiore gravità dei casi si traduce in costi notevoli per il sistema sanitario. Chiediamo alle Istituzioni risorse da destinare al personale. Donne più attente alla prevenzione”
Roma, 21 febbraio 2022 – I ritardi nelle diagnosi di melanoma a causa della pandemia continuano a farsi sentire in termini di casi di tumore della pelle più avanzati e difficili da trattare. Lo rivela uno studio condotto presso la Melanoma Unit dell’Istituto Dermopatico dell’Immacolata (IDI) di Roma e pubblicato sulla rivista “Journal of the European Academy of Dermatology and Venereology”.
Il lavoro ha confermato che la gravità dei melanomi diagnosticati all’IDI nei primi mesi del 2021 si è mantenuta più elevata rispetto al periodo pre-pandemia. Già nel 2020, uno studio, condotto sempre dall’IDI, aveva osservato un aumento significativo della gravità dei nuovi casi di melanoma con un aumento sostanziale del loro grado di infiltrazione (lo spessore di Breslow) che era passato da una media di 0,88 mm nella fase pre-pandemica ad una media di 1,96 mm nell’immediato post-lockdown.
Dal nuovo lavoro emerge che i giorni del periodo di studio (gennaio-giugno 2021) sono stati 157 e i nuovi casi di melanoma riscontrati 294, con un numero medio di 1,9 nuove diagnosi al giorno (leggermente inferiore rispetto alle 2,3 nuove diagnosi giornaliere osservate presso l’IDI in fase pre-pandemica). La maggiore gravità dei melanomi vista nell’immediato post-lockdown del 2020 si è ripetuta anche nei primi mesi del 2021.
Questa maggiore gravità è stata evidente sia per quanto riguarda lo spessore di Breslow medio (1,4 mm del 2021 contro lo 0,88 mm del periodo pre-pandemico), sia per le caratteristiche cliniche di questi tumori, con una maggiore proporzione di melanomi nodulari (13,7% rispetto a 4,2%), ulcerati (10,4% contro 5,9%) o con una componente di crescita nodulare (10,0% rispetto al 5,0%).
“Lo studio è importante perché l’IDI assorbe una quota molto elevata di tutti i melanomi diagnosticati in Italia – afferma Paolo Marchetti, Direttore Scientifico IDI di Roma, Ordinario di Oncologia all’Università La Sapienza di Roma e Presidente della Fondazione per la Medicina Personalizzata – Le conseguenze indirette della pandemia si fanno sentire per i pazienti che ricevono diagnosi di melanoma in stadio più avanzato”.
“Lo spessore del melanoma è determinante per stabilire il percorso di cura – spiega Marchetti – Quando è inferiore al millimetro, nella maggior parte dei casi basta la chirurgia per ottenere la guarigione. Quando supera il millimetro, è invece necessario effettuare la valutazione di un eventuale interessamento dei linfonodi (tecnica del linfonodo sentinella) e un diverso bilancio di estensione di malattia con esami di secondo e terzo livello, perché il rischio di ripresa della malattia è più alto. Diagnosi più avanzate si traducono non solo in maggiori sofferenze per i pazienti e per le loro famiglie, ma anche in costi notevoli per il sistema sanitario nazionale”.
“Il ritardo diagnostico accumulato nel 2020 non è stato del tutto assorbito nel 2021 – continua il prof. Marchetti – Sono quindi necessari interventi da parte delle Istituzioni, anche in termini di investimenti per assumere più personale medico e infermieristico, con l’obiettivo di ripristinare e accelerare i percorsi di diagnosi e cura del melanoma”.
La percentuale di melanomi meno severi è rimasta sostanzialmente stabile nelle varie fasi pandemiche (25-28% del totale dei melanomi) ed è molto vicina ai valori osservati nel periodo 2018-2019. Il ritardo diagnostico ha riguardato prevalentemente gli uomini di età pari o superiore a 50 anni.
“Una nota positiva che emerge dallo studio è la maggiore attenzione da parte delle donne nei confronti del corpo e della salute in generale – conclude il prof. Marchetti – Infatti il ritardo diagnostico è inferiore nelle donne rispetto agli uomini. Da qui l’importanza di campagne mirate di sensibilizzazione rivolte alla popolazione maschile. In conclusione, i nostri risultati suggeriscono che potremmo ancora pagare il prezzo della riduzione della prevenzione, delle diagnosi più tardive e del numero ridotto di diagnosi precoci causato dalla pandemia”.