Roma, 9 ottobre 2021 – La letteratura ha ormai ampiamente evidenziato come in presenza della diagnosi di una malattia cronica, aumenta la probabilità di sviluppare disturbi e sofferenza nell’area psichica. Le enterospondiloartriti non fanno eccezione anche a causa di un interessamento di più organi e apparati, sintomi subdoli che ritardano la diagnosi anche di anni e lo stress psichico dato da nuove condizioni di vita e terapie che controllano la malattia ma non sono in grado di guarirla. Se nella popolazione generale la depressione interessa tra il 10-25% delle donne e il 5-12% degli uomini, in chi ha una malattia cronica la prevalenza sale al 25-33%.
Dell’aspetto psicosociale si parla durante l’8° Congresso della Società Italiana di GastroReumatologia a Roma: “diagnosi e sintomi spesso invalidanti e caratterizzati da dolore intervengono in maniera violenta nell’esistenza del paziente costringendolo a cambiamenti spesso radicali e indesiderati” spiega il dott. Walter Monterosso, Psicologo Clinico e Sociologo nella sua relazione.
“La malattia può portare a stress, ansia e disturbi depressivi che ostacolano quel percorso di accettazione necessario a riscrivere la propria esistenza. L’intervento dello psicoterapeuta è utile sia al momento della diagnosi o in caso di processo di accettazione della nuova condizione sia ostacolato. È importante ad esempio lavorare sulla consapevolezza del soggetto della sua condizione, per poi contenere il dolore e la sofferenza. Come terapeuti ad esempio diamo dignità e ascolto a sentimenti come rabbia, tristezza, vergogna, senso di colpa. Dopo un normale periodo in cui metabolizzare l’evento malattia è possibile iniziare a ripensare le diverse aree della propria esistenza”, prosegue Monterosso.
Uno studio pubblicato sulla rivista Inflammatory Bowel Disease ha suggerito che nei pazienti con malattie croniche intestinali i disturbi dell’umore siano ampiamente sottodiagnosticate: nella ricerca il 40% dei pazienti soddisfaceva i criteri per la depressione e il 30,6% quelli per l’ansia.
L’aspetto psicologico è altresì importante nella motivazione a seguire la terapia: la non aderenza alle cure può portare a peggioramenti, ricadute, diminuzione dell’autonomia. Le ricerche più recenti hanno individuato nella non compliance componenti affettive e psicologiche e la diagnosi di una malattia cronica può far emergere quelli che vengono chiamati atteggiamenti ‘ostacolanti’.
“Occorre in qualche modo ‘fare amicizia con la propria malattia’ e favorire il percorso graduale di accettazione. Sappiamo bene come una diagnosi irrompa in maniera violenta e sconvolga i progetti del futuro. Costringe alle volte a mettere in discussione i propri ritmi, la propria immagine corporea, è come uno spartiacque tra chi è sano e chi non lo è, per taluni un ponte levatoio alzato. Come clinici dobbiamo conoscere anche le fasi attraverso cui il paziente passa: disorientamento, negazione o spostamento su un problema di minore interesse, rabbia, ostilità. Se il percorso è ‘sano’ si arriva all’accettazione e all’adattamento, mentre se è caratterizzato da passività, angoscia, dipendenza dai familiari ecc. possiamo avviare la famiglia ad una terapia psicologica che permetta al paziente di sentire che ha ancora molto da dare e può quindi iniziare una nuova progettualità, sia pure su basi diverse” sottolinea il prof. Vincenzo Bruzzese, Presidente SIGR.
Come ci accorgiamo che il paziente è sulla strada giusta? Ci sono alcuni segnali positivi: ad esempio la malattia non è più in primo piano, non viene nascosta, se ne può parlare, gli effetti non sono più devastanti ma circoscritti e soprattutto il paziente mostra una tendenza all’altruismo (non è più piegato solo su di se). Questi segni ci confermano la definizione di ‘accettazione’ di Mc Cracken ed Eccleston (2003): un nuovo orientamento dell’attenzione verso altri aspetti della vita.