Roma, 3 luglio 2021 – Il Covid-19 spazza via i volumi di attività della chirurgia prostatica, con riduzioni del 30% nelle Regioni a maggiore incidenza epidemica come la Lombardia, ma con pesanti contrazioni – meno 50% in Basilicata – anche sulle performance di quelle meno colpite dal virus.
“Tutto il Paese fatica a riorganizzare i reparti e a gestire le liste d’attesa – spiega il prof. Vincenzo Mirone, ordinario di Urologia dell’Università Federico II di Napoli e Presidente di Fondazione PRO – ma c’è anche, ancora, la paura del contagio da parte di molti pazienti, spesso anziani e affetti da altre patologie. Si stima una riduzione di circa il 30% delle visite, un calo davvero preoccupante. Questi gli effetti dell’onda d’urto dell’epidemia sulla prevenzione del cancro della prostata e sulle terapie di chi, spaventato dalla paura del virus, spesso trascura il rispetto di cure e follow-up”.
“Una neoplasia – prosegue Mirone – che vede 37.000 nuove diagnosi ogni anno in Italia, la metà delle quali nel 2020 perse a causa del Covid, e che, dopo il melanoma, negli over 50 è la più frequente negli uomini, con il 20% di tutti i tumori maschili. L’età media al momento della diagnosi è di 72 anni e si sviluppa più frequentemente a partire dai 50 anni. Soprattutto alle 564.000 persone che nel nostro Paese convivono con questa diagnosi è rivolta la seconda fase della nostra campagna ‘Per il cancro non c’è lockdown’”.
“Queste campagne di awareness nei confronti di pazienti e caregiver – spiega il prof. Giuseppe Procopio, Responsabile Oncologia Medica genitourinaria della Fondazione IRCCS Istituto Nazionale dei Tumori di Milano – sono benedette. Con le vaccinazioni contro il Covid-19, speravamo in una ripresa di maggiore efficacia. E invece le migrazioni sanitarie dal Sud al Nord si sono fermate, i nostri pazienti anziani che vivono nel Mezzogiorno ancora temono spostamenti e contagi. Ma un ritardo di 3-6 mesi nelle terapie può essere fatale a molti di loro. Ruolo chiave in una situazione come l’attuale, ma anche in un futuro di lenta ripresa in una nuova normalità, lo hanno le terapie a lungo termine, trimestrali e semestrali. Grazie a una diagnosi precoce ma anche a una buona aderenza alle terapie, le persone colpite, vive a 5 anni dal verdetto, sono oltre il 90%. Un dato notevole, considerata l’età mediamente avanzata dei pazienti e la frequente presenza di altre patologie croniche in corso. Con le terapie a lungo termine possiamo tornare, in totale sicurezza, a centrare gli obiettivi raggiunti prima della pandemia”.
“Nel 2020 – interviene il prof. Corrado Franzese, Presidente Nazionale della Società Italiana Urologia Territoriale (SIUT) – sull’altare del Covid abbiamo dovuto spesso sacrificare la continuità delle cure. Insieme alle terapie a lungo termine, un’altra risorsa che si è affacciata sul nostro scenario è la Telemedicina. Non dobbiamo perdere questa straordinaria occasione, che è un pezzo di futuro dell’Urologia, territoriale e non. I nostri pazienti sono per lo più uomini anziani affetti da comorbidità spesso croniche, come diabete, obesità o ipertensione. La Telemedicina, con un opportuno training dei clinici, ma anche dei pazienti, contribuisce a mettere questi ultimi nelle condizioni di non abbandonare i trattamenti”.
“La futura sostenibilità del Servizio Sanitario Nazionale – conclude il prof. Mirone – passa anche attraverso scelte di campo sulle terapie a lunga durata o di deposito, valide soprattutto in caso di carcinoma prostatico avanzato e strategiche rispetto all’aderenza alle cure. Con questo approccio risparmieremo innanzitutto vite umane e prognosi infauste, ma anche alti costi indiretti legati alla mancata vita attiva dei malati e dei loro caregiver. L’appello ai pazienti è dunque di non dimenticare che ‘Per il cancro non c’è lockdown’ e per la persona ammalata di cancro della prostata c’è sempre il proprio urologo o oncologo”.