Fragilità ossea nei pazienti Covid. Fratture vertebrali indicatore di gravità dell’infezione

Milano, 3 luglio 2021 – Non si contano più gli organi e tessuti che hanno mostrato il fianco al virus SARS-CoV-2 con conseguenze anche a lungo termine. Tra questi anche le ossa, al centro di una sessione del Congresso CUEM 2021, quest’anno in modalità online dall’1 al 3 luglio.

Fratture vertebrali hanno impatto clinico sull’infezione
Il danno osseo è testimoniato dallo studio italiano retrospettivo apparso su The Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism che ha messo in relazione la prevalenza di fratture vertebrali (VF) e impatto clinico del virus. Nel trial sono stati inclusi 114 pazienti sottoposti a radiografia laterale del torace all’accesso al pronto soccorso. Sono state individuate VF nel 36% dei pazienti studiati (n. 41), soggetti più frequentemente affetti da ipertensione e malattia coronarica.

Le condizioni dell’88% dei pazienti con fratture ha richiesto il ricovero ospedaliero rispetto al 14% di quelli senza danni ossei anche nei decessi che hanno colpito il 22% dei soggetti con fratture rispetto al 10% di quelli senza con una mortalità più elevata nei soggetti con danni vertebrali più gravi, rispetto a quelli le cui fratture erano moderate o lievi.

Prof. Andrea Giustina

“Le fratture vertebrali si sono rivelate un marker semplice di fragilità e data la loro elevatissima prevalenza e il loro potere predittivo di un esito peggiore, potrebbero essere a pieno titolo inserite tra le comorbidita’ già noti per avere un impatto negativo sulla prognosi quali ipertensione, diabete e obesità” racconta il prof. Andrea Giustina, Co-Presidente del CUEM e Professor of Endocrinology Head, Institute of Endocrine and Metabolic Sciences San Raffaele Vita-Salute University and IRCCS Hospital

Fragilità ossea nei pazienti Covid-19
I pazienti Covid-19 ospedalizzati hanno mostrato una particolare predisposizione alla fragilità ossea con alto rischio di fratture. I fattori alla base di questa osservazione potrebbero essere molteplici tra cui gli alti livelli di citochine pro-infiammatorie, bassi livelli di calcio, età avanzata, comorbilità concomitanti come il diabete mellito e i trattamenti con glucocorticoidi associato a immobilizzazione prolungata e perdita di massa muscolare.

In questo senso è importante notare che la terapia cortisonica che si è dimostrata efficace nel migliorare l’outcome dei pazienti Covid-19 ospedalizzati ha importanti effetti collaterali osteometabolici che vanno tenuti presente soprattutto in quei pazienti che continuano ad assumere cortisone a lungo e quindi nella fase post COVID.

La lezione appresa dalla Sindrome di Cushing
Il dott. Stefano Frara della Cattedra di Endocrinologia e Malattie del Metabolismo dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano primo autore di una recente review sull’argomento recentemente apparsa su una prestigiosa rivista internazionale riporta che l’Ipercortisolismo endogeno aumenta le fratture particolarmente proprio a livello vertebrale principalmente tramite impatto negativo sulla qualità dell’osso.

L’aumento della fragilità scheletrica è riportato nella malattia conclamata ma anche in forme lievi di Ipercortisolismo. In molti studi da noi eseguiti è emerso che la morfometria vertebrale è uno strumento utile emergente nella valutazione della salute ossea nelle forme sia endogene (ipofisarie e surrenaliche) ma anche dovuta alla terapia cortisonica.

La salute delle ossa – aggiunge il prof. Giustina – può migliorare dopo il controllo / cura dell’Ipercortisolismo, o con la sospensione della terapia cortisonica sebbene la normalizzazione possa verificarsi solo a lungo termine. Pertanto, la consapevolezza, diagnosi, prevenzione / trattamento dei danni ossei da cortisolo/cortisone rappresentano un bisogno clinico e una buona pratica clinica.

Fare attenzione all’osso anche nei maschi
Un comune denominatore – conclude il prof. Giustina – tra gli studi sul Covid-19 e le terapie croniche corticosteroidee è che le fratture vertebrali in queste condizioni non risparmiano in nessun modo il sesso maschile che è risultato perlomeno altrettanto colpito rispetto al sesso femminile. Questo riscontro deve essere da stimolo per tutti gli addetti ai lavori ma anche per la popolazione generale di non trascurare la salute ossea nel maschio evitando di cadere in quel reverse bias di genere che vede l’osteoporosi come patologia esclusivamente femminile.

Il dosaggio della vitamina D, così importante anche per il suo ruolo nel sostenere la difesa immunitaria, e una valutazione MOC DEXA della massa ossea nei maschi a rischio di osteoporosi o che abbiano riportato già una frattura sono elementi importanti di buona pratica clinica che la pandemia Covid-19 ci ha ricordato e che non dovremo dimenticare.

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