Al via maxi-studio “Rome Trial” su 1.230 pazienti affetti da qualsiasi tipo di neoplasia, che sta coinvolgendo 43 centri oncologici italiani
Roma, 20 novembre 2020 – Terapie sempre più personalizzate, grazie anche all’utilizzo di nuovissimi farmaci a bersaglio molecolare, che offrono un’altra opportunità di cura a quei pazienti oncologici che non hanno avuto risultati dalle terapie tradizionali a cui si sono sottoposti.
È partito dall’Italia un maxi-studio che sta coinvolgendo 1.230 pazienti affetti da qualsiasi tipo di neoplasia (al momento ne sono stati già arruolati 8) e 43 centri oncologici italiani: si chiama “Rome Trial” ed è promosso da Istituto superiore di Sanità, Università Sapienza di Roma e Fondazione per la Medicina Personalizzata (FMP).
Ma perché questa sperimentazione è considerata unica al mondo? L’agenzia Dire lo ha chiesto al prof. Paolo Marchetti, ordinario di Oncologia Medica alla Sapienza e responsabile di Oncologia B al Policlinico Umberto I, oltre che presidente della FMP. “In genere gli studi vengono effettuati su un determinato tipo di tumore o con un determinato tipo di farmaco utilizzabile in diversi tumori – spiega Marchetti – In questo caso abbiamo invece l’unicità rappresentata dall’impiego in tutte le neoplasie con tutti i bersagli possibili, dai farmaci a bersaglio molecolare alla immunoterapia. Lo studio è poi aperto su tutto il territorio nazionale perché abbiamo voluto evitare che i pazienti dovessero subire anche il disagio di muoversi lontano dalla propria residenza”.
Terapie sempre più personalizzate, o meglio ancora ‘cucite addosso’, per usare una sua stessa espressione: sembra essere questo il futuro delle cure oncologiche. Ma può spiegare in cosa consiste esattamente questo studio?
“Fondamentalmente grazie a questa sperimentazione abbiamo la possibilità di riconoscere all’interno delle cellule tumorali, indipendentemente dalla sede del tumore, quali sono le alterazioni non solo strutturali, quindi quali sono i difetti di determinati geni, ma anche quali sono le difficoltà che hanno questi geni a produrre una quantità corretta del loro prodotto finale, cioè le proteine, che sono poi vitali per la nostra sopravvivenza.
Tali alterazioni danno a queste cellule un vantaggio di tipo evoluzionistico, dunque un vantaggio rispetto alle cellule normali, e il tumore cresce. Ecco che allora è possibile, identificando queste specifiche alterazioni, associare un farmaco specifico.
Molti di questi farmaci non sono ancora disponibili sul mercato e ma noi li abbiamo a disposizione grazie al nostro studio, che vede il passaggio dal modello classico istologico a quello che abbiamo definito ‘modello mutazionale’. A questo associamo anche la valutazione delle alterazioni attraverso la biopsia liquida, quindi attraverso un prelievo di sangue, nel quale le cellule malate rilasciano frammenti del loro Dna, per cui frammenti di questi bersagli che poi riconosciamo e proviamo a neutralizzare”.
Sono molti, intanto, i parametri da valutare: si parla, solo per citarne alcuni, di 324 geni per la biopsia e 770 geni per l’immunologia. Una quantità di informazioni che non possono essere studiate da un singolo. In che modo viene incontro la tecnologia?
“Abbiamo impiegato una piattaforma specifica il cui nome è Navify, che permette non solo una discussione interdisciplinare tra diversi specialisti, finalizzata a interpretare migliaia di dati, ma anche e soprattutto la definizione di un percorso che possa identificare il miglior trattamento possibile. Tutte queste informazioni verranno poi raccolte in maniera prospettica e ci consegneranno un’enorme banca dati da analizzare insieme ai tanti colleghi di fisica, ingegneria e scienze informatiche della Sapienza.
Si tratta di una nuova modalità di interpretazione dei risultati: al clinico serve infatti un’informazione sintetica, perché certamente non può, con il paziente di fronte, mettersi a leggere centinaia di pagine di risultati, ma deve avere un’informazione che lo guidi in maniera specifica.
Inoltre abbiamo la piattaforma DrugPin, che consente la riconciliazione terapeutica: in questo modo cerchiamo che i farmaci che il paziente assume per patologie concomitanti (dal diabete all’ipertensione fino alla vasculosclerosi) non interferiscano negativamente con il farmaco che così difficoltosamente abbiamo identificato”.
Dietro la sperimentazione “Rome Trial” c’è anche una ‘scelta etica’: ce ne può parlare?
“La scelta etica riguarda intanto la disponibilità dello studio su tutto il territorio nazionale: consideriamo infatti quanto possa essere complesso identificare 43 centri oncologici che si muovano nelle stesse condizioni, senza avere il supporto di una azienda farmaceutica che si occupi di tutti i dettagli organizzativi. L’Università Sapienza ha quindi costruito anche un sistema di valutazione, analisi e condivisone delle informazioni a livello nazionale.
Ma soprattutto si parla di scelta ‘etica’ perché in questi studi gli enti regolatori, tra cui l’AIFA, richiedono che i risultati del gruppo di pazienti trattati in maniera innovativa vengano confrontati con il trattamento convenzionale che il medico avrebbe scelto. Ovviamente si tratta di uno studio randomizzato che prevede questa alternativa: da un lato i farmaci innovativi con la profilazione, dall’altro la profilazione e il trattamento con farmaci convenzionali.
Il comitato organizzatore, su mia sollecitazione, ha poi deciso di prevedere la possibilità che qualora i pazienti trattati con la terapia convenzionale non rispondano al trattamento, gli stessi poi possano ugualmente essere trattati dopo questa prima fase con i farmaci a bersaglio molecolare. Insomma: abbiamo realmente concesso a tutti i pazienti che hanno un’alterazione, che può essere oggetto di un farmaco specifico, a ottenere in prima o seconda battuta un trattamento con questa modalità innovativa”.
Durante il “Cracking Cancer Forum 2020” è stato lanciato un allarme: “Per il Covid-19 sono saltate le cure e la prossima pandemia sarà il cancro”. Come commenta?
“Sicuramente i rinvii in molte attività, soprattutto di diagnosi precoce e di adesione agli screening, un po’ per la ridotta disponibilità nelle strutture assistenziali, in larga parte dovuta anche al timore delle persone sane di recarsi in ospedale, sta limitando la possibilità di riconoscere quanto più precocemente possibile un tumore. Tutto questo dovrà essere recuperato e sappiamo quante difficoltà già ci sono sul territorio nazionale per riuscire a garantire ai pazienti un adeguato accesso ai percorsi di diagnosi precoce e di screening. Questo è uno dei problemi sui quali maggiormente si sta concentrando la nostra attenzione.
Dall’altra parte, per i pazienti oncologici già in trattamento ci sono ovviamente percorsi dedicati e a tutti viene garantito il percorso terapeutico. Ora stiamo potenziando molto, laddove è possibile, anche la telemedicina, con la possibilità di connetterci con i pazienti attraverso piattaforme, per cercare di capire se è necessario farlo venire in ospedale oppure no”.
(fonte Agenzia Dire)