Roma, 10 giugno 2020 – Non c’è un preciso momento della vita in cui tutti i bebè emettono la prima o le prime parole, perché allo sviluppo del linguaggio concorrono molteplici fattori biologici e ambientali. Generalmente intorno ai 24 mesi il vocabolario del bambino è già composito e arriva a disporre di circa 200 parole. E se questo non dovesse accadere? Quando i genitori devono preoccuparsi e qual è il ruolo che gioca il pediatra di libera scelta nell’invio del paziente allo specialista? Famiglia e scuola, su indicazione dell’esperto, come devono misurarsi con il disturbo? L’agenzia di stampa Dire ha approfondito l’argomento via skype con Mauro Ventura, logopedista del Dipartimento di Neuroscienze del Bambino Gesù.
Alcuni bambini non parlano correttamente o non lo fanno per niente. Quali sono i numeri del problema in Italia e quando è bene rivolgersi allo specialista, magari anche su indicazione del pediatra di libera scelta?
“Per parlare di numeri dobbiamo considerare che il linguaggio è una funzione cognitiva altamente complessa e integrata. Questo significa che può essere messo in crisi da problematiche cognitive, percettive, deprivazione sociale e disturbi relazionali. Il disturbo del linguaggio specifico primario si può manifestare però anche in maniera indipendente dai disturbi appena citati. In Italia la percentuale di persone che si rivolge ai centri territoriali delle Asl già con diagnosi sospetta per difficoltà di linguaggio o di apprendimento scolastico si aggira intorno al 30%. La Consensus Conference dello scorso anno ha confermato che i ‘parlatori tardivi’, ossia quei soggetti che in presenza o meno di un disturbo, parlano tardi sono circa il 13%. Di questa quota, un 70% di loro recuperano il disturbo intorno ai 3 anni. Possiamo davvero stimare la difficoltà primaria del linguaggio intorno a un 5% su base nazionale. All’interno di questo 5% il rapporto tra maschi e femmine è del 2,5% a 1, i maschi come per altre patologie neuropsicologiche sono il sesso maggiormente vulnerabile. Non bisogna allarmarsi per non aggravare la situazione, ma è bene considerare cosa accade nella fascia dai 0 ai 3 anni d’età, identificata come cruciale per lo sviluppo del linguaggio. Il neonato comincia ad emettere suoni vegetativi per poi passare al vocalizzo allo scoccare dei 3 o 4 mesi, si passa alla lallazione fino ad arrivare all’anno di vita dove il bambino emette la prima o le prime parole. Attorno ai 24 mesi ci si aspetta che il piccolo possa disporre di un vocabolario costituito da 100, 150 o 200 parole e ne combini almeno due insieme. Intorno ai 3 anni il bambino dovrebbe essere in grado di costruire frasi complete. Questi sono i riferimenti temporali. Se il bambino tarda rispetto a queste tappe, è giusto che i genitori approfondiscano il problema che va discusso con il pediatra di libera scelta. Dopo questo primo step sarà il pediatra, quasi sicuramente o dovrebbe farlo, a direzionare il paziente dallo specialista. In ogni caso va dato rilievo anche alla comprensione delle parole del bambino, un aspetto cruciale nelle eventuali future scelte terapeutiche”.
Qual è la storia di questi bimbi? Quanti arrivano a risolvere il problema e se si può fare una stima in quanto tempo?
“Se parliamo di disturbi primari del linguaggio, un 70% dei bambini ‘parlatori tardivi’ entro i 3 anni può risolvere il problema. Si tratta di bambini che ‘sbocciano più tardi’. Poi il 30% di questi ‘parlatori tardivi’, che corrisponde al 5% dei bambini con disturbi del linguaggio, può riportare progressi significativi. Altri invece porteranno delle tracce di disturbi del linguaggio anche oltre i 10 anni d’età. Tali pazienti allora vanno seguiti e monitorati perché il linguaggio progredisce nel tempo ed è una competenza che non serve solo ad inviare e recepire un messaggio, ma serve anche a strutturare il pensiero e fare un processo di apprendimento di lettura e scrittura. Queste fasi possono essere migliorate e indirizzate con un intervento corretto”.
Casa, scuola e specialista sono i contesti con i quali il piccolo paziente con i disturbi del linguaggio interagisce, ma si parlano effettivamente tra loro?
“Dovrebbero certamente confrontarsi ed essere collegati fra di loro. È importante che la famiglia riceva perciò dallo specialista, in primo luogo il logopedista, le indicazioni per interagire al meglio con il bambino affetto da disturbi del linguaggio. Questo è importante anche nei casi lievi, perché il problema in ogni caso può generare delle complicazioni di tipo emotivo e relazionale. Il bambino che non riesce a farsi capire e comprende di non essere capito, pur essendo intelligente, può andare verso una chiusura della relazione con l’altro. Spesso questi soggetti possono manifestare anche una irritabilità maggiore. È controproducente chiedere al piccolo di ripetere, far finta di non capire. Il genitore deve ascoltare il bimbo ed espandere la comunicazione in forma corretta e mostrarsi come modello ma non di tipo sanzionatorio. Su indicazioni dello specialista la famiglia e la scuola devono collaborare e utilizzare un lessico comune. Lo scopo non è convergere tutti sul disturbo, bensì sul bambino e il suo disturbo. Cosa ben diversa. Solo comprendendo l’identità del piccolo paziente sarà possibile compiere dei progressi”.