Roma, 5 giugno 2020 – L’epidemia da Coronavirus è globale, alcune nazioni stanno vivendo ora la fase più drammatica che l’Italia si è lasciata alle spalle. L’analisi epidemiologica della pandemia, la gestione clinica dei casi e l’economia sono tra loro interconnessi. La ricerca di una terapia farmacologica mirata non è l’unico obiettivo da centrare bisogna rimodulare l’offerta di cure e rinforzare la medicina territoriale.
L’agenzia di stampa Dire ha intervistato via Skype il prof. Roberto Grinta, Direttore di Dipartimento dei Servizi – Area Vasta 2 – ASUR Marche e docente alla Lum di Bari ai corsi Master per direttori generali.
L’emergenza non è finta ma il virus sicuramente sta perdendo forza così gli ospedali possono tornare a riprogrammare le normali attività ma la pandemia ha messo in luce le carenze della medicina territoriale. Quali sono allora le azioni che non bisogna rimandare?
“La fase 1 è stata intensa e ha richiesto delle risorse specifiche e in maniera specifica penso soprattutto alla richiesta di personale infermieristico e medico internista nonché la quantità enorme di posti letto in terapia intensiva di dpi. La fase 2 richiede un approccio differente e anche le professioni sanitarie in gioco sono diverse. È preponderante oggi la richiesta di tecnici di laboratorio e di radiologia. Risulta strategico migliorare l’efficienza all’interno della gestione dei test sierologici e dei tamponi per accertare l’assenza del virus nei pazienti in modo da consentire la riprogrammazione degli interventi e delle attività. Questo non solo per ridurre le liste d’attesa ma anche per ripartire a pieno ritmo con la rete cardiologica, dell’ictus, del trauma. Infine devono ripartire tutta la rete degli screening che sono così importanti. Solo attraverso queste azioni si potrà riorganizzare il SSN”.
Anche la digitalizzazione in sanità è ormai imprescindibile. Qual è il suo punto di vista a riguardo e in quali settori bisogna più investire?
“L’informatizzazione del SSN, attraverso il fascicolo sanitario elettronico, è indispensabile così come la sua implementazione è una procedura che le stesse aziende sanitarie devono perseguire. All’interno di questo strumento devono essere inserite tutte quelle informazioni che ricaviamo dalla medicina generale e dalla condivisione dei dati delle vaccinazioni sul territorio e dalle attività dei ricoveri. Infine, il nuovo percorso della app Immuni, dei test sierologici e dei tamponi ci consentirà di individuare il paziente più fragile e a rischio anche relativamente al Covid-19”.
Ha anticipato in qualche modo un’altra domanda… il test sierologico e la app Immuni possono aiutarci in questa seconda fase nel tracciamento e a scongiurare il rischio di nuovi contagi. In ogni caso lei crede che saremo pronti se il virus, come dicono alcuni, dovesse tornare in autunno?
“Se nella prima fase abbiamo avuto una scarsa conoscenza del virus in questa seconda fase abbiamo immagazzinato più conoscenze sia di tipo clinico che gestionale rispetto alla patologia da Covid. È un bagaglio acquisito e ora ci stiamo riorganizzando affinché, qualora il virus dovesse ripartire con forza, sappiamo come rimodulare il tipo di assistenza. Abbiamo imparato poi da questa pandemia, ancora una volta, che territorio e ospedale non devono essere due entità separate ma devono convergere per rispondere veramente ai fabbisogni di cura della popolazione. Per questo che nelle Regioni dove le strutture territoriali si sono rivelate deboli è servito implementare le strutture ospedaliere. Dunque prima interveniamo sul territorio, prima gestiamo i pazienti più fragili meno complicanze e accessi agli ospedali avremo”.
All’interno del suo dipartimento, tra tamponi e test sierologici quante persone siete riuscite a raggiungere e i dati raccolti a cosa serviranno?
“I tamponi e l’indagine sierologica sono stati davvero fondamentali. Perché il tampone è l’unico modo di fare diagnosi, cioè consente di identificare il virus mentre i test sierologici ci forniscono una stima della prevalenza d’immunizzazione della popolazione. Tutte le volte che il paziente risulta positivo alle IgG è normale che debba fare il tampone. Questo ce lo dobbiamo mettere in testa. La patologia clinica e la diagnostica sono state altrettanto fondamentali e di aiuto a sostegno della parte clinica, sia nella prima fase che soprattutto in questa seconda”.