Milano, 8 aprile 2020 – Come ogni anno dal 1997, l’11 aprile ricorre la Giornata Mondiale Parkinson, voluta dall’European Parkinson’s Disease Association (EPDA), data di nascita di James Parkinson, il medico inglese che nel 1817 descrisse per la prima volta la “paralisi agitante”.
La Giornata è occasione di confronto tra esperti di tutto il mondo su una tematiche che quest’anno doveva essere l’insorgenza della malattia di Parkinson in età giovanile, ma a causa dell’emergenza Coronavirus, tutte le manifestazioni pubbliche sono state annullate. Nonostante questo, seppure a distanza, il dibattito può proseguire, partendo proprio dalle possibilità che hanno i pazienti Parkinson di contrarre il virus.
“I pazienti affetti da malattia di Parkinson (MP) – sottolinea la dott.ssa Anna Zecchinelli, Direttore del Centro Parkinson e Parkinsonismi dell’ASST Gaetano Pini-CTO – non sono a rischio maggiore di contrarre l’infezione da Coronavirus rispetto alla popolazione generale. Quello che fa la differenza sono le condizioni generali del soggetto, la sua età, la presenza di comorbilità, specie a livello cardiologico, o il diabete, oltre al grado di disabilità che la malattia comporta. Pazienti che si muovono meno, hanno difficoltà a deglutire, presentano declino cognitivo sono effettivamente più a rischio rispetto alla popolazione generale. Per tutti la raccomandazione è il distanziamento sociale, le misure igieniche, fondamentale anche mantenere il fisico in esercizio con ginnastica effettuata al domicilio, in autonomia”.
Nell’immaginario collettivo quando si parla di Parkinson si pensa a un anziano tremolante, invece è una patologia che può colpire anche i giovani.
“La malattia si può sviluppare anche al di sotto dei 20 anni – commenta la dott.ssa Zecchinelli – tuttavia l’incidenza aumenta con l’incremento dell’età. Benché la malattia sia la stessa, nei pazienti con MP giovanile la progressione di malattia tende a essere più lenta, le complicanze motorie (fluttuazioni motorie e discinesie) si verificano più precocemente e i disturbi psichiatrici di tipo affettivo (depressione, ansia) e comportamentale (disturbo del controllo degli impulsi), sono più frequenti. Nella MP giovanile la distonia si associa frequentemente al parkinsonismo e i disturbi cognitivi e assiali (instabilità posturale, cadute, anomalie posturali del tronco) sono meno frequenti, potendo manifestarsi molto tardivamente dopo numerosi anni di malattia, in età più avanzata”.
Il trattamento della malattia di Parkinson a esordio giovanile non è differente da quello in fase più avanzata, a guidare la scelta terapeutica è il grado di disabilità e la richiesta funzionale della persona; vanno tenute presenti altre patologie e altri trattamenti farmacologici, per evitare interazioni tra farmaci.
“Con l’avanzare della malattia nel corso degli anni è più probabile che la persona che si ammala da giovane vada incontro a complicanze motorie, pertanto è più probabile che un paziente a esordio giovanile affronti le terapia avanzate, infusionali o le metodiche neurochirurgiche (Deep Brain Stimulation)”, spiega la specialista.
Confrontarsi con i pazienti giovani richiede al neurologo un grande impegno in termini di empatia e comunicazione con la persona: “Comunicare la diagnosi è un momento delicato. La malattia cronica spaventa, le responsabilità rispetto alla famiglia sono maggiori. Parliamo di persone in attività lavorativa e spesso con figli piccoli. La nostra società tende a stigmatizzare le persone non più efficienti fisicamente, il rischio è quello di isolarsi, mentre il modo migliore di affrontare la malattia è di mantenere i rapporti sociali, affiancare alla terapia farmacologica l’esercizio fisico, da soli o con l’aiuto di un terapista, curare l’alimentazione, eventualmente ricorrere al sostegno psicologico, da soli o in coppia per meglio affrontare la malattia, vivere consapevoli di essere persone con il Parkinson, non malati di Parkinson. Allo scopo ricordo che un aiuto formidabile viene dalle associazioni, ce ne sono oramai molte in Italia, alcune indirizzate alle persone con Parkinson giovanile”.
Il Centro Parkinson, con sede al Presidio Ospedaliero CTO di Milano, che accoglie numerosi pazienti giovani con Parkinson collabora con l’Associazione Italiana Parkinsoniani e con la Fondazione Grigioni che supporta la ricerca.
A tutt’oggi il motivo per cui la malattia di Parkinson si sviluppa non è noto. Molti esperti ritengono che la malattia sia il risultato dell’interazione tra numerosi fattori ambientali a cui il paziente è esposto durante la propria vita (sostanze tossiche, farmaci, stili di vita, ecc.) e una predisposizione genetica ereditata all’interno della famiglia.
“È ereditaria solo la predisposizione a sviluppare la malattia e, infatti, è necessaria anche in questi casi la contemporanea presenza di altri fattori ambientali per far sviluppare i sintomi. Di conseguenza la maggior parte dei famigliari non mostrerà mai la malattia, pur avendo magari ereditato alcuni fattori genetici predisponenti. La presenza di una predisposizione genetica è confermata dal fatto che dal 10% al 16% dei pazienti con malattia di Parkinson riferiscono almeno un familiare di primo grado affetto (figli, genitori, fratelli, sorelle)”, sottolinea Zecchinelli.
Più nello specifico: il rischio di sviluppare la malattia nei familiari di 1° grado è basso. Il rischio relativo è circa 3; in altre parole se il rischio della popolazione generale di ammalarsi di Parkinson sopra i 65 anni di età è dell’1%, per i familiari di 1° grado di un malato di Parkinson il rischio di ammalarsi è il 3%.
Numerosi studi sugli aspetti genetici stanno cominciando a identificare i vari geni coinvolti nella predisposizione alla Malattia di Parkinson, ma attualmente, a parte rari casi, non si può stabilire con chiarezza quale è la probabilità di aver ereditato questa predisposizione all’interno della famiglia. Le rare eccezioni sono quelle famiglie in cui la predisposizione genetica è legata ad una mutazione su un singolo gene (malattia monogenica) che rappresenta tuttavia meno del 10% dei casi.
Nonostante l’enorme progresso raggiunto, il ruolo della genetica nella patogenesi della MP rimane ancora solo parzialmente compreso, probabilmente anche perché molti geni sono ancora da scoprire, e le conoscenze sui fattori di suscettibilità genetica associati alla patologia sono ancora scarse e spesso discordanti.
Recentemente però, grazie all’avvento di tecnologie innovative, quali il sequenziamento di nuova generazione (NGS) e gli studi di associazione su tutto il genoma (Genome Wide Association Studies, GWAS), questo scenario sta cambiando.
“La possibilità di analizzare tutto il genoma, o solo la parte codificante di questo – spiega il Direttore del Centro Parkinson e Parkinsonismi dell’ASST Gaetano Pini-CTO – ha permesso di scoprire, in tempi estremamente rapidi, numerosi geni e fattori di suscettibilità coinvolti nella patogenesi della MP. Stiamo assistendo a una vera rivoluzione nel mondo della genetica. Solo incrementando questo tipo di conoscenze sarà possibile identificare, e quindi bloccare, i meccanismi responsabili della neurodegenerazione alla base di questa patologia e dare anche una risposta all’interrogativo che spesso i nostri giovani pazienti pongono, e cioè se i loro figli, crescendo, ammaleranno di Malattia di Parkinson”.