Ricercatori dell’Ateneo padovano evidenziano come un’alterata produzione di energia a livello cellulare possa essere una concausa del morbo di Alzheimer e individuano il meccanismo tramite il quale il mitocondrio, la centrale energetica della cellula, non funziona come dovrebbe, compromettendo così alcuni processi fondamentali della cellula nervosa
Padova, 18 febbraio 2020 – La malattia di Alzheimer è la forma più frequente di demenza. È una malattia cronica e progressiva che influenza la memoria, il pensiero, il comportamento e la capacità di svolgere le attività quotidiane. Particolarmente critico per la neurodegenerazione che caratterizza questa malattia è il processo di iperproduzione e accumulo in aree specifiche del cervello del peptide amiloide Ab. Ciò ha spinto la ricerca farmacologica verso l’individuazione di composti in grado di interferire con questo processo.
Ad oggi, però non esiste una terapia in grado di curare o bloccare la progressione dell’Alzheimer. Manca infatti ancora un modello molecolare globale in grado di spiegare tutte le diverse alterazioni osservate nella malattia. In particolare, alcune specifiche modificazioni cellulari, come la perturbazione della morfologia/funzionalità di organelli intracellulari, la produzione sbilanciata di energia cellulare e l’alterato metabolismo lipidico, sono state molto meno considerate.
In uno studio pubblicato sulle prestigiosa rivista Cell Reports condotto dai dott.ri Alice Rossi, Giulia Rigotto, Giulia Valente, Valentina Giorgio, Emy Basso, Riccardo Filadi e dalla prof.ssa Paola Pizzo del Dipartimento di Scienze Biomediche dell’Università degli Studi di Padova e dell’Istituto di Neuroscienze del CNR ha evidenziato come vari modelli sperimentali della malattia di Alzheimer presentino un funzionamento alterato dei mitocondri (organelli necessari a fornire energia per tutte le funzioni cellulari) e come questo possa tradursi in un’alterata attività neuronale alla base della patologia.
“La corretta funzionalità dei mitocondri – spiega la prof.ssa Paola Pizzo – è necessaria per rifornire la cellula della giusta quantità di molecole energetiche necessarie a svolgere la maggior parte delle attività cellulari. Una carenza energetica importante o prolungata nel tempo può avere un esito nefasto per la cellula”.
Il gruppo padovano aveva in studi precedenti segnalato come, in specifiche forme ereditarie della malattia, i segnali molecolari basati sullo ione calcio fossero alterati a livello di alcuni organelli subcellulari, tra cui i mitocondri.
“In questo nuovo lavoro – spiega il dott. Riccardo Filadi – abbiamo definito il meccanismo tramite il quale una proteina coinvolta nelle forme precoci ed ereditarie di Alzheimer, la presenilina 2, altera la funzionalità del mitocondrio. La sua azione è duplice: da una parte diminuisce il flusso di calcio all’interno dei mitocondri, deprimendo così l’attività di alcuni enzimi deputati alla produzione di energia; dall’altra riduce l’entrata al mitocondrio del piruvato, una molecola importante per il metabolismo mitocondriale. Volendo fare un paragone automobilistico, è come se il motore delle nostre cellule, ossia i mitocondri, rimanessero a corto di carburante, compromettendo la capacità delle cellule nervose di far fronte a situazioni di stress che richiedono molta energia”.
Il rilievo di questi risultati è amplificato dal fatto che simili difetti si riscontrano anche in modelli sperimentali di Alzheimer che mimano le forme non ereditarie della malattia, molto più frequenti nella popolazione. Tale difetto energetico si ripercuote sulla corretta funzionalità neuronale, portando queste cellule più facilmente a morte, contribuendo alla neurodegenerazione tipicamente descritta nella patogenesi della malattia di Alzheimer.
“Siamo purtroppo ancora lontani – spiega Paola Pizzo – dal trovare un farmaco capace di sconfiggere definitivamente questa malattia. Tuttavia, pensiamo che i nostri risultati possano stimolare la comunità scientifica a focalizzare la ricerca su aspetti, come la funzionalità mitocondriale, finora poco studiati ma che crediamo possano offrire nuove opportunità terapeutiche. A tal proposito, sarà essenziale poter effettuare una sperimentazione in modelli animali della malattia, che risultano ancora insostituibili per lo studio di patologie complesse come le malattie neurodegenerative e il cancro”.