Roma, 6 giugno 2015 – Bambini che hanno una avversione al cibo, che non avanzano verso gli alimenti più appropriati alla loro età, che vanno rincorsi con il piatto in mano per pochi bocconi. Per il 25% dei bimbi sotto i sei anni sedersi a tavola è uno stress e, anche se nella maggior parte dei casi il problema si risolve con poche semplici regole, ci possono essere casi più gravi, con sintomi che assomigliano molto a quelli dei disturbi alimentari dei fratelli più grandi. Dei cosiddetti Nofed (Non-Organic Feeding Disorders) si è parlato durante una sessione del Congresso Italiano di Pediatria da cui sono emerse le cose da fare e da non fare per i genitori.
I Nofed, ha spiegato Claudio Romano, pediatra dell’Università di Messina, riguardano il 25% dei bambini sani e l’80% di quelli che hanno qualche problema di sviluppo. Nel 15-30% dei casi a causarli sono problemi organici, mentre per l’80% si tratta di disturbi della sfera psicologica.
“La forma più frequente di disturbo della condotta alimentare di tipo non organico è costituita dai ‘picky eaters’, bambini che hanno in media delle ridotte assunzioni spontanee nel corso della giornata a cui si associa una avversione verso il cibo o che non provano alcun piacere a tavola – spiega l’esperto – Per fortuna nella maggior parte dei casi questi bambini sono vivaci e svolgono regolarmente la loro attività. Il ruolo del pediatra in queste condizioni è quello di rassicurare la famiglia che spesso considera questo comportamento alimentare come espressione di una condizione patologica. La fascia di età più interessata è quella tra i 3 e 6 anni”.
Oltre che per i bimbi, ha spiegato Romano, il problema è stressante anche per i genitori. “Il comportamento dei genitori nei confronti di un figlio picky eater rappresenta il più importante fattore coadiuvante la persistenza o l’accentuazione del problema – sottolinea l’esperto – Infatti pur di assicurare, secondo loro, una alimentazione adeguata sono disposti a tutto. I comportamenti più frequenti sono quelli di offrire il latte di notte durante il sonno (nel bambino tra i 2-3 anni), o di assumere un atteggiamento persecutorio nei confronti del bambino rispetto al cibo, associato spesso a forzature. Un altro comportamento da eliminare è costituito dal consentire distrazioni durante il pasto (gioco, televisione). Il bambino deve consumare il pasto seduto a tavola”.
I primi problemi possono nascere già dallo svezzamento, altro momento che genera ‘panico’ nei genitori, ma secondo Romano più che affidarsi a metodi strampalati, magari trovati sul web o attraverso le amiche, è sufficiente una semplice regola. Il rischio può essere ridotto offrendo prima dei 9 mesi anche alimenti dal forte gusto quali i vegetali, pomodoro ed agrumi. Dal 10° mese in poi può essere offerta un’alimentazione da adulto e senza limiti, rispettando però i gusti del bambino (alimentazione responsiva). Uno svezzamento troppo lento e con tardiva introduzione dei gusti forti può favorire l’instaurarsi di un “comportamento alimentare di tipo neofobico, in cui alimenti nuovi vengono rifiutati”.
Ma quando un disturbo deve far preoccupare? La presenza di sintomi clinici di tipo gastrointestinale quali il vomito, la diarrea e principalmente l’arresto della crescita o la perdita di peso rappresentano dei campanelli d’allarme che devono indurre ad un approfondimento diagnostico per escludere cause di natura organica. Anche eventuali sintomi di tipo extragastrointestinale, quali la presenza di un ritardo dello sviluppo psicomotorio (linguaggio, deambulazione), possono correlarsi ad un disturbo del comportamento alimentare di tipo organico.
fonte: ufficio stampa