Modificare il tumore per renderlo maggiormente riconoscibile al sistema immunitario. Studio innovativo del CIO di Siena, diretto da Michele Maio, coniuga clinica e analisi transazionale: sperimentato con successo l’utilizzo di guadecitabina e ipilimumab nello studio NIBIT-M4. Una ‘prima’ mondiale, presentata al congresso ASCO che si apre oggi a Chicago, frutto della ricerca finanziata dalla Fondazione NIBIT, Network Italiano per la Bioterapia dei Tumori
Chicago, 31 maggio 2019 – La sfida attuale nella lotta al cancro è di aumentare il numero di pazienti che rispondono positivamente all’immunoterapia. Per farlo occorre ‘preparare’ il tumore ad essere riconosciuto in modo più efficace dal sistema immunitario. È in questa direzione che stanno lavorando i ricercatori del Centro di Immuno-Oncologia (CIO) del Policlinico Santa Maria alle Scotte di Siena. Nello studio NIBIT-M4, che verrà presentato il 1° giugno a Chicago in occasione del congresso dell’American Society of Clinical Oncology (ASCO), il gruppo di ricerca del professor Michele Maio, in collaborazione con importanti Centri italiani ed europei, ha dimostrato che nei pazienti con melanoma la sequenza di guadecitabina e ipilimumab – il primo un agente ipometilante, il secondo un immunoterapico – migliora la capacità del sistema immunitario nel riconoscere ed attaccare le cellule tumorali.
Aumentare il numero di pazienti che rispondono all’immunoterapia
Negli ultimi dieci anni l’immunoterapia ha rivoluzionato il trattamento dei tumori. Alcune neoplasie che non lasciavano scampo oggi possono essere trattate con successo, ma solo circa il 40-50% dei pazienti risponde a questo genere di cure. Se da un lato una delle possibili strategie per aumentare la percentuale è migliorare la sequenza con cui somministrare i diversi immunoterapici, l’altra prevede la somministrazione dell’immunoterapia in combinazione a molecole in grado di modificare le caratteristiche del tumore con l’obiettivo di renderlo maggiormente visibile al sistema immunitario. Lo studio presentato ad ASCO, una ‘prima’ a livello mondiale, va proprio in quest’ultima direzione.
“I risultati raggiunti – spiega il prof. Michele Maio, direttore del CIO di Siena e presidente della Fondazione NIBIT che ha finanziato lo studio – sono per noi motivo di grande orgoglio in quanto confermano la nostra iniziale intuizione sulla necessità di creare le condizioni affinché gli immunoterapici possano agire al meglio. Quanto ottenuto è perfettamente in linea con i risultati pre-clinici raggiunti negli anni scorsi dai laboratori del nostro centro. Una dimostrazione di quanto sia fondamentale l’integrazione tra la ricerca di base e quella clinica, sostenute negli anni dalla Fondazione NIBIT, e dalla Fondazione AIRC anche grazie al finanziamento 5×1000 2018”. Un passo avanti ulteriore verso la cronicizzazione del cancro.
Il tumore è maggiormente visibile
Lo studio di fase 1b, iniziato nel 2015 e che ha coinvolto 19 pazienti con melanoma metastatico, ha innanzitutto raggiunto l’obiettivo di dimostrare la sicurezza e la tollerabilità della sequenza di somministrazione dei due farmaci. Dalle analisi è anche emerso che nel 42% dei pazienti si è verificato un controllo della malattia e nel 26% dei casi una risposta obiettiva al trattamento.
“Questi dati – spiega la dott.ssa Anna Maria Di Giacomo, coordinatore della ricerca clinica del CIO e Principal Investigator dello studio – ci indicano che siamo sulla buona strada. La somministrazione sequenziale di un agente ipometilante e dell’immunoterapico è un trattamento fattibile e complessivamente ben tollerato che può migliorare l’efficacia dell’immunoterapia”.
Non solo, le analisi effettuate sui campioni tumorali dei pazienti hanno mostrato che l’utilizzo della guadecitabina ha portato ad una maggiore espressione di quei geni implicati nel riconoscimento tra tumore e sistema immunitario, chiara prova della bontà del metodo utilizzato.
Farmaci in sequenza
La strategia utilizzata ha previsto la somministrazione di un farmaco epigenetico – la guadecitabina – capace di determinare modificazioni chimiche nel DNA delle cellule tumorali per poterne modulare l’espressione genica. “Le modifiche generate da questo farmaco – spiega la dott.ssa Alessia Covre, coordinatore della ricerca pre-clinica del CIO al policlinico Santa Maria alle Scotte di Siena, coautore dello studio – fanno sì che le cellule tumorali esprimano, sulla loro superficie, molecole che hanno un ruolo fondamentale nell’interazione tra tumore e sistema immunitario. Così facendo il tumore risulta maggiormente visibile agli ‘occhi’ alle cellule del sistema immunitario del paziente. In questo modo la guadecitabina crea le condizioni ottimali per fare in modo che i farmaci immunoterapici somministrati successivamente possano avere maggiore efficacia”.