Aumenta il numero dei rifugiati, aumentano i numeri della fame nel mondo

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Meno di un anno fa, venivano annunciati quasi simultaneamente il primo aumento in 20 anni nel numero di persone che soffrono la fame nel mondo (+40 milioni) e un numero record di rifugiati, superiori a 66 milioni di persone a rimarcare lo stretto legame tra fame e guerra. Più della metà dei rifugiati sono bambini, molto più vulnerabili alla malnutrizione. Carenze nell’allattamento al seno, nella dieta e barriere sociali sono tra i principali ostacoli al mantenimento di un buono stato nutrizionale tra rifugiati e sfollati

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Milano, 19 giugno 2018 – Non è un caso che, nello stesso momento in cui la fame tornava a crescere per la prima volta negli ultimi decenni, il numero di rifugiati e sfollati nel mondo è salito a 66 milioni di persone. Una delle forme di fame che le guerre portano è infatti legata ai massicci spostamenti di persone in fuga dalla violenza. Insieme alla loro casa, abbandonano il loro mezzi di sostentamento, diventando completamente dipendenti dalla solidarietà delle popolazioni ospitanti o, se riescono a raggiungere un campo profughi e ottenere lo status di rifugiati, dagli aiuti internazionali.

“Nonostante gli aiuti, ci sono fattori che possono compromettere notevolmente il corretto stato nutrizionale dei rifugiati”, spiega Antonio Vargas, Responsabile per l’alimentazione e la salute di Azione contro la Fame. È molto comune che lo stress post-traumatico causato dalla violenza provochi, ad esempio, un’interruzione nella capacità sia del bambino sia della madre di proseguire l’allattamento al seno: “l’improvvisa interruzione dell’allattamento al seno può portare a uno stadio di malnutrizione acuta, quindi è prioritario lavorare con madri e bambini sotto i sei mesi per ripristinare al più presto l’allattamento al seno, che non solo nutrirà il bambino ma lo proteggerà da numerose malattie in condizioni igieniche spesso precarie nei centri con altissima concentrazione di persone”, spiega Vargas.

Dieta di emergenza per i rifugiati “a lungo termine”
Fuggire causa anche un improvviso cambiamento della dieta abituale. Le razioni alimentari distribuite agli sfollati e ai rifugiati sono pensate per coprire brevi periodi di tempo e supplire alle esigenze nutrizionali di base, sotto forma di calorie da carboidrati o olio vegetale, senza il contributo di micronutrienti e proteine animali che potrebbero essere fornite da carne, pesce e prodotti freschi.“Queste razioni sono intese come una soluzione di emergenza, per alcuni mesi; ultimamente la tendenza è l’incertezza dei conflitti”, spiega Vargas. Una persona sfollata trascorre mediamente 17 anni lontano da casa.

Il doppio fardello della malnutrizione
“Stiamo anche assistendo all’emergere di un doppio problema legato alla malnutrizione in molti campi profughi: non ci sono solo casi di malnutrizione, ma anche di sovrappeso a causa dello squilibrio nutrizionale e dello sviluppo di pratiche alimentari inadeguate come meccanismo di adattamento al nuovo ecosistema”, afferma Vargas. A ciò si aggiunge l’impoverimento della dieta causata da barriere culturali verso tipi di cibo poco utilizzati.

Cash transfer: il modo migliore per sfamare gli sfollati nel breve termine…
“In Azione contro la Fame cerchiamo di superare queste barriere attraverso aiuti sotto forma di distribuzioni di denaro anziché di distribuzioni alimentari dirette: questo non solo promuove l’economia locale della popolazione ospitante, ma consente ai rifugiati l’accesso a prodotti freschi nei mercati locali e di scegliere in base alle loro preferenze alimentari”, spiega Hélène Pasquier, Responsabile della sicurezza alimentare e dei mezzi di sussistenza dell’organizzazione.

…e sostenere le economie locali nel medio e lungo periodo
La prolungata permanenza dei rifugiati non solo porta al limite i meccanismi di adattamento dei rifugiati – negli ultimi anni in Libano abbiamo visto aumentare i casi di matrimonio precoce e lavoro minorile tra gli oltre un milione di rifugiati siriani – ma mette anche pressione sui servizi di base e sulle risorse naturali dei Paesi ospitanti (la maggior parte dei quali sono Paesi in via di sviluppo), che possono portare a nuovi conflitti.

Negli ultimi anni si è accusata una certa stanchezza da parte dei donatori verso alcuni “conflitti congelati” e una tendenza a ridurre gli aiuti umanitari quando la presenza di rifugiati dura più di uno o due anni: “In crisi meno visibili come quella nel nord del Mali o in Mauritania, dove sono presenti decine di migliaia di rifugiati maliani, cerchiamo soluzioni per generare mezzi di sostentamento tra i rifugiati stessi, attraverso piccole forme di scambio commerciale o attività professionali all’interno dei campi, in modo da generare una certa autonomia dagli aiuti umanitari”, spiega Pasquier.

Uno dei progetti più di successo in questo ambito, legato al riciclo dei rifiuti, è stato avviato da Azione contro la Fame con rifugiati siriani (principalmente donne) a Irbid, in Giordania, con il supporto finanziario di GIZ.
Azione contro la Fame lavora in alcune delle più importanti crisi di rifugiati: nella regione siriana, in Mali, in Niger, in Mauritania, con i rifugiati Rohynga in Bangladesh e in Sud Sudan.

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