L’infarto del miocardio è la causa più frequente di mortalità e morbilità nel mondo. In Italia, la cardiopatia ischemica rappresenta il 12% di tutte le morti. Si stima che in un anno oltre 135.000 individui siano colpiti da un evento coronarico e che di questi, 45.000 siano eventi fatali (E Perugini et al – Epidemiologia delle SCA in Italia,2010).
L’esercizio fisico costituisce uno tra i più importanti fattori di protezione nei confronti dell’insorgenza e della progressione delle malattie cardiovascolari, in grado sia di limitarne significativamente l’incidenza (prevenzione primaria), sia di ridurre il rischio di nuovi eventi (prevenzione secondaria). Infatti, in passato, i cardiologi condizionati dal concetto “Rest and Pain” (riposo e dolore), prescrivevano ai pazienti colpiti da infarto del miocardio lunghi periodi di riposo, ma nell’ultimo decennio la strategia è completamente cambiata… la parola d’ordine è: movimento! Il training fisico controllato e adattato al paziente costituisce un’importante terapia nel post infarto. In più, permette di determinare una riduzione della mortalità o di nuovi eventi cardiovascolari di circa il 20-25%, che si aggiunge a quella determinata dai trattamenti farmacologici.
I meccanismi biologici degli effetti protettivi dell’esercizio fisico, identificati in vari studi, sono:
- riduzione dei fattori di rischio cardiovascolare (effetti antiaterogenetici: riduzione dell’obesità, dell’incidenza del diabete mellito, dell’ipertensione, del profilo lipidico);
- effetti sulla coagulazione (azione antitrombotica, riduzione dell’attività favorente la coagulazione);
- miglioramento della funzione endoteliale (favorire la vasodilatazione);
- effetti antiaritmici (aumento del flusso di sangue al miocardio e la riduzione dell’attività del sistema nervoso simpatico);
- effetti di protezione sull’ischemia (miglioramento del rapporto fra consumo e disponibilità di ossigeno a livello miocardico).
Inoltre, da un punto di vista fisiologico, l’esercizio fisico praticato con regolarità e costanza determina: riduzione della frequenza cardiaca (FC) e della pressione arteriosa (Pa) a riposo e da sforzo; riduzione della richiesta miocardica di ossigeno; miglioramento della contrattilità miocardica. Nei pazienti con malattia coronarica ciò permette di affrontare un maggiore carico di lavoro prima che compaiano i segni clinici (dolore, dispnea) e strumentali (elettrocardiogramma) di carenza di flusso ematico al cuore (ischemia). Per questo i soggetti infartuati non dovrebbero fermarsi alle prime due fasi della riabilitazione cardiologica, a cui vengono sottoposti, in fase acuta, durante il ricovero ospedaliero o presso centri di Riabilitazione, ma dovrebbero proseguire con le successive due fasi di riallenamento fisico, rispettivamente intermedia e a lungo termine, affidandosi ad uno specialista dell’attività motoria adattata. Il tutto sia per incrementare e mantenere nel tempo la capacità funzionale del cuore, la riduzione dei sintomi della malattia, l’innalzamento della soglia di dispnea (mancanza di respiro), la modifica del profilo di rischio coronarico, la riduzione della possibilità di nuovi eventi, sia per modificare globalmente il proprio stile di vita migliorando la qualità di vita.
Infatti, l’esercizio fisico è un ottimo mezzo per intervenire anche sull’aspetto psicologico del soggetto. Un infarto porta con sé notevoli conseguenze sull’umore. La sensazione più comune è la paura, che molto spesso porta il soggetto ad essere depresso. Pensando di essere in condizioni elevate di rischio di salute, si teme che l’attacco possa ritornare, per questo ogni piccolo dolore toracico, minima mancanza di respiro, genera ansia. Tutto ciò è normale e non ci sono altre soluzioni se non quella di riprendere subito la propria quotidianità, anzi a fare di più. Bisogna star tranquilli, i benefici dell’attività fisica controllata sono di gran lunga maggiori dei possibili rischi che essa può determinare. Nei pazienti sottoposti a riabilitazione/rieducazione cardiologica si registrano: 1 infarto miocardio/294.000 ore di attività fisica, 1 morte/784.000 ore di attività. Per questo la riabilitazione/rieducazione cardiologica viene considerata come: “insieme di interventi richiesti per assicurare le migliori condizioni fisiche, psicologiche e sociali che consentono ai pazienti, affetti da malattie cardiache post-acute o croniche, di mantenere o riassumere la propria posizione sociale” (Riab Oggi,’99).
Riguardo all’attività fisica da svolgere, c’è un largo consenso per i vantaggi determinati da almeno 30 minuti di camminata a passo svelto per più giorni a settimana. Questa senz’altro apporta giovamento in termini di stile di vita attivo, ma per trarre i reali benefici dell’esercizio-terapia bisogna pianificare il riallenamento in base al singolo soggetto, a seconda del suo stato di salute, della terapia farmacologica a cui è sottoposto e al suo livello di fitness, nonché ai suoi obiettivi. Il tutto è possibile eseguendo una valutazione medica e motoria, attraverso esami di laboratorio, test motori e misurazioni antropometriche.
Dopo aver escluso ogni controindicazione medica, si può strutturare il protocollo riallenante. Esso deve essere costituito sia dall’attività aerobica che da quella di forza sottomassimale. L’allenamento aerobico deve essere praticato con una frequenza di 3 giorni settimanali, per 20-60 minuti, mentre quello di forza 2-3 giorni a settimana, per 30 minuti. Entrambe le tipologie di allenamento devono essere svolte in maniera progressiva e ad intensità moderata. (Linee guida dell’American College Sport Medicine – ACSM). Inoltre, durante la sessione di allenamento, il soggetto dovrà essere continuamente monitorato relativamente alla sua FC, Pa, Saturazione d’ossigeno (SaO2) e percezione della fatica.
Prendendo atto dei benefici su menzionati, l’attività fisica deve essere intesa come un vero e proprio farmaco “cardio-attivo”.
Buon riallenamento!