Milano – Durante il parto circa una donna su dieci va incontro ad un grave sanguinamento: sono i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, secondo la quale questo sanguinamento è responsabile del 25% di tutte le morti di una madre durante il parto. E il dato è in aumento: infatti questi gravi sanguinamenti sono quasi raddoppiati negli ultimi dieci anni, sia un Usa che in Europa. Per ridurre queste emorragie post-parto, alla Clinica Mangiagalli della Fondazione Ca’ Granda Policlinico di Milano è stato messo in atto uno speciale modello organizzativo, al momento unico in Italia: “e i risultati ottenuti finora – spiega Antonio Nicolini, responsabile della Radiologia Interventistica – sono molteplici e incoraggianti”.
Nel percorso del parto i medici hanno a disposizione un importante indicatore chiamato “Maternal Near Miss”, che rappresenta il numero di donne che hanno rischiato di morire ma che sono sopravvissute grazie all’elevata assistenza sanitaria. Queste “Near Miss” in circa la metà dei casi sono dovute a una grave emorragia post-parto: la causa principale è legata alla placenta, sia per un’anomalia della sua posizione sia perché può aver “invaso” la parete dell’utero o gli organi vicini. Queste patologie sono in costante crescita, “perché le partorienti hanno un’età più avanzata che in passato, ma anche a causa del più frequente ricorso al parto cesareo e alla fecondazione assistita”. Per questo alla Mangiagalli, nel Dipartimento guidato da Luigi Fedele, si è formata una squadra di esperti dedicata che comprende ginecologi, radiologi interventisti, anestesiti-rianimatori e fisici sanitari: i lavori sono cominciati un anno fa, con l’obiettivo di ridurre l’emorragia post-parto attraverso tecniche di radiologia interventistica.
La procedura si basa su particolari tecniche di embolizzazione o di blocco di flusso dell’arteria uterina, grazie alle quali i medici sono in grado di controllare l’eventuale emorragia nel momento più critico, ovvero quello in cui avviene il distacco della placenta subito dopo il parto. “L’intera procedura si svolge interamente in sala parto – spiega Nicolini – adeguatamente allestita con apparecchi angiografici, al fine di ottimizzare sicurezza e tempistica dell’intervento. La finalità è quella di ridurre temporaneamente il flusso di sangue all’utero subito dopo il parto cesareo, cioè quando l’entità del sanguinamento ha il suo picco. Nelle ore successive, quando le probabilità di emorragia si riducono, l’utero viene nuovamente irrorato, grazie ad esempio all’utilizzo di una sostanza ‘embolizzante’ composta di un materiale che si riassorbe spontaneamente nel tempo”.
Questa tecnica, ma soprattutto il modello organizzativo con cui è applicata, hanno permesso di ridurre le perdite ematiche nelle donne che stanno partorendo di oltre il 50% (746 cc di sangue contro i 1640 cc dei casi controllo), e c’è stato bisogno di meno trasfusioni di sangue (nell’8% dei casi, rispetto al 36% del controllo). In un anno della sua applicazione, sottolinea Nicolini, “in nessun caso si è dovuto ricorrere all’asportazione dell’utero per arginare l’emorragia e per nessuna partoriente è stato necessario il ricovero in rianimazione”.
“Come per tutti i tipi di emorragia – conclude l’esperto – il tempo gioca un ruolo vitale. La nostra soluzione di operare in equipe in un’unica sala si sta dimostrando vincente. Purtroppo in Italia non sono noti casi di altri ospedali che abbiano optato per tale scelta, che sicuramente è più complessa dal punto di vista logistico ed economico, ma fornisce un controllo ed una sicurezza per la donna indubbiamente superiore”.
fonte: ufficio stampa