Uno studio condotto dal Neuromed, in collaborazione con altri Centri di ricerca italiani, chiarisce il ruolo che un recettore endocannabinoide potrebbe avere nella depressione e nell’ansia che si accompagnano alla sclerosi multipla
Pozzilli, 6 dicembre 2016 – Depressione e ansia compaiono spesso nei malati di sclerosi multipla, ma non sarebbero semplicemente una reazione emotiva al loro stato di disabilità crescente. Secondo gli ultimi studi, infatti, alla base ci sarebbe lo stesso meccanismo infiammatorio che crea i disturbi del movimento tipici della malattia. Una ricerca condotta dall’I.R.C.C.S. Neuromed di Pozzilli (IS), in collaborazione con la Fondazione Santa Lucia, l’Università Tor Vergata e altri Istituti scientifici italiani ed europei, chiarisce ora uno dei meccanismi di questo fenomeno.
Lo studio, pubblicato sulla rivista Journal of Neuroinflammation, ha evidenziato come, in animali da esperimento, l’interleuchina-1 beta (IL-1beta), una molecola coinvolta nei processi infiammatori, agisca sul recettore cannabinoide di tipo 1, modificando in questo modo il comportamento di alcuni neuroni. È ben noto che l’infiammazione in atto durante la sclerosi multipla porta alla perdita di mielina, la sostanza che riveste le fibre nervose, causando problemi nella conduzione degli impulsi nervosi. Ma ora il processo evidenziato da questa ricerca mostra come la stessa infiammazione sia alla base di cambiamenti nell’umore come, appunto, ansia e depressione.
“Alla luce di queste osservazioni – dice il prof. Diego Centonze, Responsabile dell’Unità Operativa di Neurologia I e dell’Unità di Neuroriabilitazione del Neuromed – possiamo pensare che farmaci in grado di agire sul sistema endocannabinoide rappresenterebbero una valida opzione terapeutica. Non solo per il trattamento della spasticità e del dolore cronico, tipici della sclerosi multipla, ma anche dei disturbi dell’umore, migliorando quindi la qualità di vita dei pazienti”.
Scoperti circa venti anni fa, gli endocannabinoidi sono molecole presenti in diversi organi, dove svolgono una funzione di messaggeri tra le cellule. Devono il loro nome al fatto che si legano agli stessi recettori usati dai fitocannabinoidi, le ben note sostanze presenti nella canapa indiana. “Quanto parliamo di terapie del genere – continua Centonze, ultimo firmatario dell’articolo scientifico – ci riferiamo non solo a molecole cannabidoidi in senso stretto, ma anche a farmaci capaci di potenziare i cannabinoidi naturali del nostro corpo”.
fonte: ufficio stampa